La vita è un ospizio, mai un ospedale Sulla Peste di Camus e sulla vulnerabilità di ognuno. Una riflessione di Alain de Botton
Riproduciamo l\’articolo pubblicato nella rassegna stampa (newsletter del Corriere della Sera) di Venerdì 20 marzo 2020. Si parla di Camus, della Peste e del Coronavirus, partendo da un articolo del New York Times di Alain de Botton
Perché Camus ci commuove più che mai. Soprattutto se ce lo spiega De Botton
Questa dote la conferma con un pezzo per il Nyt sull\’attualità della Peste di Camus. Un pezzo apparentemente non consolatorio, ma incredibilmente commovente. Quindi alla fine sì, anche consolatorio. Perché riflettere sulla condizione umana, in un momento come questo, consola e dà forza.
La storia è nota, trattandosi di uno dei più grandi romanzi del dopoguerra (uscì nel 1947). E la trama ci è straordinariamente vicina: il flagello che colpisce la città di Orano e la pretesa di invulnerabilità dei suoi abitanti, la sottovalutazione iniziale, la riluttanza a rinunciare ai piaceri della vita, i bar e i ristoranti pieni, il contagio che si diffonde e con esso il panico. L’orrore montante è descritto da Camus col passo del thriller.
Per scrivere il libro, ricorda De Botton, il genio francese si era immerso nella storia della peste: la Morte Nera che aveva sterminato 50 milioni di europei nel Trecento, il morbo del 1630 che uccise quasi 300 mila lombardi e veneti, quello di Londra del 1665 e anche le piaghe cinesi del Sette-Ottocento. Ma lo studio delle epidemie, secondo lo scrittore anglo-svizzero, non serviva a Camus per una metafora dell\’occupazione nazista della Francia, come a volte si sostiene. Serviva a uno scopo più vasto, che De Botton descrive con parole mirabili:
«Si accostò al tema perché riteneva che gli eventi storici che chiamiamo peste sono il mero concentrato di una precondizione universale, esempi drammatici di una regola perpetua: che tutti gli esseri umani sono vulnerabili rispetto alla possibilità di essere sterminati a caso, in ogni momento, da un virus, da un incidente o dagli atti di un loro simile».
Gli abitanti di Orano – metafora di tutti noi – non possono accettarlo: «Anche quando un quarto della popolazione sta morendo, continuano a immaginare motivi per cui non succederà a loro». Perché? Perché «sono persone moderne con telefoni, aeroplani e giornali»: come possono essere raggiunti da un male così antico che, «come sanno tutti, è sparito dall\’Occidente»?
Lo sanno tutti tranne i morti, dice Camus. Per lui, «quando si tratta di morte, non c\’è progresso nella storia, non c\’è fuga dalla nostra fragilità. Essere vivi è sempre stato e sempre sarà un\’emergenza», e questa è «una “condizione sottostante” ineludibile».
In questo senso, «la peste c’è sempre, se con essa intendiamo la suscettibilità alla morte improvvisa, un evento che può rendere le nostre vite istantaneamente prive di significato. Era questo che intendeva Camus quando parlava di “assurdità della vita”. Riconoscere questa assurdità dovrebbe portarci non alla disperazione ma a una tragicomica redenzione, ad allargarci il cuore, a scostarci dalla sentenziosità e dal moralismo alla gioia e alla gratitudine».
Eccola dunque la lezione più bella e profonda di questo libro, lui sì, immortale. Una lezione che è il contrario del panico, «perché il panico suggerisce una risposta a una condizione pericolosa ma di breve durata dalla quale alla fine possiamo salvarci». Ma rispetto alla morte \”non può mai esserci salvezza, ed è per questo che, per Camus, dobbiamo amare i nostri simili dannati come noi e lavorare senza speranza né disperazione per attenuare la sofferenza. La vita è un ospizio, mai un ospedale». Siamo cioè tutti più o meno prossimi alla morte, e da quella non ci si può curare. Ma dal dolore sì.
E se la peste, o il virus, fossero una punizione di Dio? Chi ha fede questo dubbio ce l\’ha sempre, come il prete Paneloux del romanzo. Ma il dottor Rieux, protagonista e voce narrante, ha visto morire un bambino e sa che «la sofferenza si distribuisce a caso, senza senso, è semplicemente assurda, ed è la cosa più gentile che se ne possa dire». Il nostro virus, finora, coi bambini è stato più gentile. Dio o il caso?
Non manca nemmeno il riferimento ai medici. Anche il dottor Rieux lavora incessantemente per curare i malati, ma dice che l\’eroismo non c\’entra: «Può sembrare ridicolo, ma l\’unico modo per combattere la peste è la decenza». Cos’è la decenza? \”Fare il mio lavoro\”.
Alla fine – ci vuole un anno – la peste passa. Ma non può mai essere una vittoria definitiva. La peste, o il virus, sono debellabili in quanto malattie, non in quanto possibilità di morte improvvisa, sempre in agguato. Per questo Camus «parla a noi, noi di questa epoca, non da veggente che possa intimare ciò che i migliori epidemiologi non potrebbero, ma perché ha colto la giusta misura della natura umana. Sapeva, a differenza di noi, che “ognuno ha in sé questa piaga, perché nessuno al mondo ne è immune”». Ascoltarlo vuol dire recuperare il senso della nostra finitezza. E vivere meglio.