Le affinità e le differenze fra due età in cui la vita ci appare come ciò per cui non siamo mai pronti e occorre rinegoziare il rapporto con noi stessi e col mondo Francesco Stoppa, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza, Feltrinelli 2021
Adolescenza e vecchiaia: due età che, in tempi di pandemia, sembrano aver subito un comune destino di “oggetti sacrificali”, o sacrificabili, sia pure secondo modalità differenti. Ma non è di questo che parla lo psicanalista, attento a mettere in luce altre, ben più profonde affinità fra queste stagioni della vita. Affinità e differenze, comunque da sondare. Perché le riflessioni che possono venire da questo esame riguardano la vita di tutti, la vita in ogni sua stagione. A partire da una dimensione che la abita dall’inizio alla fine, ma che nelle due età in questione si impone con più evidenza: il desiderio, inteso – come l’autore stesso precisa in una recente intervista (sul “Corriere della Sera” del 21 febbraio) – come “l’arte di saperci fare con la nostra mancanza, il nostro limite umano, col trovare una modalità creativa di abitare la nostra condizione umana”.
Ebbene, proprio l’adolescente e il vecchio sono chiamati a fare i conti con la vita, a decidere se dirle di sì, o resisterle, essendo che “La vita ci traumatizza fin dalla nascita, ma questa distanza che ci fa soffrire ci dà anche una certa libertà di movimento che ci permette di accoglierla”. Ci permette, si potrebbe dire, di fare di noi qualcosa che non coincida con quello che gli altri di noi han fatto, evocando le parole di Sartre, il Sartre nella rilettura che Recalcati ci ha di recente proposto (Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi 2021). Là si parlava di infanzia, qui di adolescenza, ma l’accostamento fra i punti di vista dei due psicanalisti – non a caso, entrambi lacaniani – appare lecito, perché se nell’infanzia si delinea la “scelta originaria” che fa di noi l’essere unico che saremo, è nell’adolescenza – sia pure protratta, com’è oggi – che questa scelta deve affrontare la prova del mondo, e definirsi, sia che si stabilizzi in una sorta di fedeltà a sé stessi sia che si appanni in uno stato di latenza, o rimozione, che può durare per il resto della vita.
E allora possiamo trovare una continuità fra la constatazione di autori come la Yourcenar (“Più invecchio anch\’io, più mi accorgo che l\’infanzia e la vecchiaia non solo si ricongiungono, ma sono i due stati più profondi che ci è dato vivere”) e le considerazioni di Stoppa, riassumibili nella rilevazione di un’analogia di fondo: sia adolescenza che vecchiaia pongono l’individuo davanti a una trasformazione radicale, che parte dal corpo e si estende all’identità sociale. Si tratta dunque in tutt’e due le età di “saper applicare quest’arte della trasformazione”, che tuttavia nella prima si configura come “arte di crescere”, nella seconda di “tramontare”.
Ma seguiamo più da vicino il discorso dell’autore, a partire da un’acquisizione preliminare: “l’adolescenza e la vecchiaia (rappresentano) le età per antonomasia della vita, perlomeno se pensiamo le età come quelle soglie critiche che ci costringono a rinegoziare il rapporto con noi stessi e col mondo, e se pensiamo la vita come ciò per cui non siamo mai pronti”, non essendo mai in grado di guadagnare un’adesione piena alla nostra quotidianità, a noi stessi, abitati come siamo da una incompletezza di fondo, dalla mancanza e, proprio per questo, dal desiderio. Dal desiderio di un esserci, di una centralità che tendiamo ad affermare perentoriamente, spesso con spirito antagonista, nell’adolescenza; un desiderio che può illusoriamente perpetuarsi nella vecchiaia, con gli esiti che il giovanilismo dominante lascia vedere, ma che può invece, paradossalmente, realizzarsi se sfocia nell’arte di esserci senza imporsi, (nella) capacità, al momento giusto, di sapersi sottrarre”. (Viene in mente la “discrezione” di cui parlava Pierre Zaoui – L\’ arte di scomparire. Vivere con discrezione, Il Saggiatore 2015 – una virtù che non riguarda, non dovrebbe riguardare, solo la vecchiaia…). Un sapersi sottrarre che non significa zittirsi, ma cogliere il senso della trasmissione di quel che si sa, di quello di cui si è fatto esperienza, scontando la perdita di posizioni, la cessione di potere che in ogni trasmissione, se tale è davvero, è insita. “Dire sì alla vita” è anche questo: riconoscere che il passaggio tra le generazioni è “il fatto umano per eccellenza”. Una consapevolezza che, inutile nasconderselo, “fa a pugni con la tendenza oggi imperante a esserci sempre e ovunque, a esibire la propria persona, a trovare nel mondo e negli altri continue, inesauribili conferme di sé stessi” (tendenza non esclusiva dei giovani, ma che in essi può apparire addirittura “insostenibile”, secondo la diagnosi di Gustavo Pietropolli Charmet (L’insostenibile bisogno di ammirazione, Laterza 2018, in quei Appunti il 21 ottobre 2018). (http://www.secondorizzonte.it/?p=2764).
Ma altrettanto fuorviante è ritenere che accettare la vita sia frutto di “un meccanismo congenito” di adattamento, quando invece sperimentiamo che “C’è bisogno di un assenso – un dire sì al mondo, all’altro, al mio stesso corpo – cui far seguire un certo investimento”. E questo assenso va “rinegoziato” ogni volta che, come si diceva, ci troviamo a dover attraversare “soglie critiche”, e occorre allora “reinventarsi”, “decidere” (nel senso proprio della parola: operare un taglio): scrivere la propria storia, si potrebbe anche dire nel caso dell’adolescente, o, nel caso del vecchio, “ritornare sulle precedenti stesure e, grazie a questa rivisitazione, riappropriarsene in termini almeno in parte inediti”. Perché costruire una “versione singolare di sé” – la “personalizzazione”, avrebbe detto Sartre; l’”umanizzazione”, leggiamo in queste pagine – è un lavoro che non finisce mai, dura finché si ha respiro, e continuamente ci espone a un estraniamento da noi stessi che può rivelarsi – se accettato, se vissuto fino in fondo – fecondo di nuovi modi di vedere, di pensare, di stare al mondo. Indipendentemente dai suoi sbocchi immediati, che siano la “rabbia” dell’adolescenza o il senso di “gratitudine” della vecchiaia (come quella che pervade la protagonista del romanzo di Delphine de Vigan (Le gratitudini, Einaudi 2020, in questi Appunti il 4 dicembre 2020), o anche: la volontà sfrontata, non di rado arrogante, di entrare in scena o, all’inverso, la capacità di uscirne, con dispiacere forse, persino opponendo momenti di resistenza, ma con l’accettazione sostanziale che si può guadagnare solo esercitandosi assiduamente nella disciplina richiesta da un’arte nient’affatto nativa, l’arte di tramontare, l’arte di compensare l’”emorragia di narcisismo” di cui ci si sente vittime con un senso di liberazione, con la percezione della possibilità di “una seconda vita” – per citare il titolo di un autore in questo assai vicino, François Jullien (Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero, Feltrinelli 2017) – e l’intuizione che la propria identità, “inconclusa e indecifrabile” sempre, la si può declinare solo nel futuro anteriore dell’“Io sarò stato”, un tempo verbale che “mentre segnala la caducità, celebra la dignità e la gloria” della condizione umana, di ogni vita, in ognuna delle sue età chiamata, in modi e misura diversi, ad ammettere la propria “finitezza inevitabile, la (propria) solitudine inaggirabile”.
È sul rapporto, sull’incontro tra le generazioni che il discorso prosegue, sul ruolo del padre e su quello della madre, ma anche su quello dei nonni; sulla trasmissione del desiderio, ossia della capacità di vivere e seguire il proprio desiderio; sull’apparente non aver nulla da dirsi fra il ragazzo e il vecchio, sul crescente dislivello di saperi che oggi grava sul loro rapporto, e molto, molto altro, che arricchisce, specifica, complica, illumina di luci nuove il confronto fra l’adolescenza e la vecchiaia. Fino a giungere ad analogie insospettate, come quella che emerge dal ripresentarsi, in età senile, del gusto, della capacità – evidente nell’infanzia – di relazione con il non umano, con gli animali quindi, ma anche con le cose, con l’inanimato. Una propensione che i vecchi esprimono, spesso, nella domanda sul destino che attende, dopo la loro morte, i loro oggetti, i loro libri, gli arredi della loro casa, compagni fedeli e silenti del cammino percorso. Ma del resto, diceva il longevo Picasso, “siamo ciò che conserviamo”.
Brescia, 4 giugno 2021
Carlo Simoni
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