Scrivere per non fuggire dal presente Francesco Pecoraro, Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019 (pp. 446, euro 18)
“L’osservazione ostinata e diretta mi dice ciò che accade vicino a me, mi narra ogni giorno la micro-storia dello Stradone”. Lo Stradone, via di maggiore percorrenza del “Quadrante”, uno dei quartieri “emarginati, non compatti e mal pianificati, o forse mai pianificati”, occupati dalla “frantumaglia edilizia” che connota le “prime fasce esterne al nucleo storico ridotto quasi per intero a parco a tema per turisti”. I turisti che percorrono la “Città di Dio”, com’è denominata Roma in questo come nel romanzo precedente, e come lo era già da Pasolini, intenzionato, pare, a scrivere un romanzo intitolato appunto La città di Dio.
Se questo è il luogo, del personaggio che narra veniamo innanzitutto informati che abita da vent’anni in una delle molte “palazze” sorte lungo lo Stradone, elemento portante di questi luoghi definiti, nella loro disarticolazione, “dall’incontro-scontro tra speculazione urbana e produzione edilizia”. Luoghi – nella realtà sono quelli della Valle Aurelia, o “Valle dell’Inferno”, come c’è ancora chi la chiama a Roma – segnati dall’insediamento delle fornaci da laterizi che, passate a metodi produttivi industriali nel secondo Ottocento, fornirono i mattoni necessari all’espansione post-unitaria dell’Urbe, oggi “città ambigua antica indifferente” ma già allora “paradiso del costruttore” e quindi dell’“attività umana legale – l’edilizia – più prossima all’illegalità”. Luoghi che, passati attraverso la grande trasformazione – ossia della “demolizione fisica e sociale” che ha sostituito il quartiere proletario dei fornaciai della Sacca con le torri di quattordici piani dello IACP – offrono alla fine degli anni Settanta un ideale terreno di ricerca a etnografi e sociologi studiosi di comunità ormai disgregate, mentre oggi costituiscono un campione rappresentativo delle “non-scelte dell’amministrazione”.
È questo l’osservatorio. È qui, sul “marciapiede davanti casa, al Bar Porcacci e quel poco che c’è da qui alla svolta per andare al garage” che il protagonista conta “di poter vedere le cose della politica e dell’economia” e non si stanca perciò di guardare il suo “tassello di territorio segnato dalla piccola e media Storia” insieme dedicandosi “allo studio dei testi direttamente riguardanti questi luoghi”.
È così che l’espressione della “sofferenza percettiva” suscitata dal volto urbano, dalla “fine della cultura del decoro” che non si può non leggervi, si intreccia con l’indagine dei processi che quel volto hanno prodotto. E l’osservatore si fa narratore visionario del passaggio del grande Lenin fra i fornaciai della Sacca, perché quell’episodio sa dire di un tempo nel quale c’era ancora il futuro e “le categorie del filosofico e del politico (coincidevano)”, anche se la vita operaia era fatta di fatiche disumane e la fornace era un “tritacarne”, come loro, i “roboti” sopravvissuti, raccontano.
E lui, lo scrittore, come può raccontare quegli anni, quelle esistenze – si chiede – “facendo a meno di un’adesione, postuma ma totale, a quelle battaglie?”
Dopo il luogo e la storia della sua gente, è allora la biografia dell’osservatore-storico che possiamo distinguere in questo racconto in cui tutto rimanda a tutto. Il personaggio ha molto in comune con l’Ivo Brandani della Vita in tempo di pace, il romanzo precedente di Pecoraro, ma qui resta anonimo; aveva 69 anni quello e ne ha quasi 70 il narratore dello Stradone, senonché qualcosa è cambiato, quasi che i sei anni passati tra un libro e l’altro, che hanno fatto del sessantottenne Pecoraro di allora il settantaquattrenne di oggi, si facessero valere: se Ivo Brandani era un uomo che da “anni non dice più quello che pensa, a nessuno” e, “perseguitato dal senso della catastrofe”, si è ridotto a vivere in uno stato di “disperazione segreta e compressa”, l’uomo dello Stradone, pur approdato a una analoga condizione di “disperazione a bassa intensità”, si direbbe abbia guadagnato uno sguardo più disincantato, non meno sofferto ma in grado di guardare dall’alto una catastrofe ormai inequivocabilmente consumata. E dunque parla: da “vecchio maschio silente”, quale si definiva allora, sente di doversi dedicare ora a “un (suo) progetto di ricostruzione/restituzione, storica e non”. Perché “(ho) tempo libero” – come tiene a giustificare autoironicamente la sua impresa –, ma al fondo perché, lo deve ammettere, “non mi abituo” alla “nostra solita vita annidata in Occidente”, nonostante l’assistenza sanitaria, il supermercato e la palestra pervasa dalla noia, da un “inganno di cui tutti sanno”, ma “che viene benevolmente tollerato, anzi accettato a praticato”. Ma lui no, in lui non si è esaurito uno “stato interiore di costante dissenso col presente”. Non sa rassegnarsi alla “risacca della storia” nella quale viviamo e infatti “(condivide) molto” del modo di pensare dell’amico che è rimasto comunista, “senza compagni, senza Partito, senza Stato Guida, senza prospettive”, ma comunista. “Comunista silente”.
È a questa posizione che si sente vicino, nonostante il percorso che l’ha portato, dopo aver fallito nella carriera accademica, ad abbandonare il Partito, ad aderire negli anni Ottanta a quello di Craxi e a lasciarsi corrompere – da architetto funzionario ministeriale qual era – pagando il suo errore con un mese di galera cui è seguita una reintegrazione risoltasi sostanzialmente in un’emarginazione ben retribuita. Per poi ritrovarsi, pensionato, solo – una moglie, poi un’altra donna, e adesso nessuno, con lui – nel suo appartamento al settimo piano della “palazza” sullo Stradone. A guardare. Anche se stesso. Il proprio essere vecchio. Quando “tutto quello che prima ti piaceva ti interessava ti eccitava (…) non dico sparisce, ma è come se decadesse, si depotenziasse, attenuandosi, lasciandoti in uno stato di semi-indifferenza costante, definitiva” e l’energia residua è assorbita dal “bisogno quotidiano di massicce dosi di fiction, seriale e non” e dalla “ipercomunicazione webbica”, o si diluisce nei “social e adiacenze, nelle lunghe escursioni in youtube, negli sterminati enigmi pornografici che si trovano in rete”. Già, perché “nessuna donna ti guarda più. Se non le anziane come te, che tu invece non guardi”. Eppure, il desiderio continua a farsi sentire, anche se non è, spesso, “un vero risveglio, ma il sommovimento di un dormiente”. Sentimenti che convivono, drammaticamente, con una “sarabanda di pensieri di malattia e morte”, con i presagi della Malattia, con le avvisaglie del momento in cui curarsi sarà detto Battaglia, “secondo la cancro-retorica”.
Ad aggravare poi il senso di solitudine che inevitabilmente accompagna la vecchiaia, una distanza fra generazioni che è aumentata come mai era avvenuto prima, e si traduce, per il narratore, in “odio”: per le “loro menti disattrezzate, dove tutto galleggia senza peso” e “si è formata l’idea di merito”, di “società meritocratica”, nel frattempo identificata con una “piatta iperqualificazione, che oggi non si nega a nessuno abbia i soldi per conseguirla” e produce schiere di “cretini” annidati “soprattutto tra i qualificati e i meritevoli”, “imbecilli affamati di successo”, “eserciti di consenzienti anglofoni muniti di curriculum”. Giovani che non vogliono più saperne di quei “caca-cazzi” che “a partire dal Sessantotto e per tutti gli anni a seguire, ci hanno portato alla rovina”. Ma attenzione: i vecchi, per parte loro, non si possono dire vittime ingiustamente disprezzate. In loro – non escluso chi formula questi giudizi – non mancano “sentimenti schifosi”: “quando constato l’altrui star male, i danni della vecchiaia, o vengo a sapere della morte di qualcuno, non so perché, mi vergogno a dirlo, provo un piacere segreto, profondo e non confessabile”. Si tratta di “una sottile lurida doppiezza che definirei SPAD, Soddisfatta Pietà per Altrui Disgrazia”.
Il che non impedisce il sopravvivere di una pietas per il barbone che non vuole aiuto, per il giovane scivolato in una condizione di indigenza assoluta, per i baraccati che stanno al di là dello Stradone, ma anche per gli animali condotti al macello, per le vecchie cose usate per anni da qualcuno che non c’è più e finite nei mercatini, e per i libri soprattutto: persino quelli che si leggevano negli anni Settanta oggi giacciono invenduti sulle bancarelle dell’usato.
Storia di sé, degli effetti che l’età induce, ma mai storia individuale quella che troviamo in queste pagine, indissociabile da quella collettiva di un “ceto medio terminale”, di “un Grande Ripieno, in cui tutti si mescolano con tutti. Non è il reddito ad aggregarli, ma una comunanza culturale (…) tutti insieme anestetizzati da una comune aspirazione alla sicurezza economica e fisica”.
Qual è il tipo umano, quali i modi di pensare, i comportamenti che corrispondono a questa situazione?
Torniamo al punto di partenza, all’osservatorio dello Stradone: quelle che vi si muovono sono “presenze umane diacroniche, solo apparentemente viventi nel medesimo intervallo spazio-temporale”. Presenze umane, dunque, che sono “in realtà lontanissime tra loro come mentalità percezione e visione del reale contemporaneo”. Uniche occasioni di comunicazione, le chiacchiere al bar Porcacci, il bar del quartiere, e la Squadra, “ultimo ente simbolico che ci dà il senso di appartenere a qualcosa”, essendo il tifo “restato da solo a compensare la dis-appartenenza politica, la deideologizzazione generale”. Ma, occorre notare, il loro tende a confondersi con il noi. Sono, gli altri, gente da cui non ci si può aspettare più nulla e che pure vale la pena di osservare, ascoltare soprattutto, perché se ne è parte, perché un’irrinunciabile onestà verso se stessi costringe all’immedesimazione. Non necessariamente all’empatia però, che finirebbe per scivolare nell’autoassoluzione. Meglio limitarsi ad ascoltare perciò, riportando mezze frasi e sprazzi di dialogo come infratesti che ora completano con una qualche pertinenza il discorso ora lo spezzano come intrusi, ma sempre rendono – non di rado con effetti umoristici irresistibili – il tenore delle relazioni e degli scambi che intercorrono fra i “cetomediocri” (“C’ho invortini de verza./Te sembro tipo da invortini de verza?”, “So’sòrdi nostri”, “Saa so’cercata”, “Bello ’sto marzupio”…). Sono i pensionati che si lasciano “dragare” i soldi che ricevono dallo Stato da slot e bingo e Gratta & Vinci, “umiliati da un presente misterioso, incomprensibile, contro il quale talvolta, soprattutto se in branco, ringhiamo confusamente”. Quel che interessa è solo “restare vivi. Conseguire un vivere senz’altro scopo che restare vivi, per sedere al Porcacci il più a lungo possibile” e “rimettere in circolo, attraverso il consumo, il denaro pubblico affidatoci con la pensione”. Membri di quella “nuova classe sociale dei Persi nel Tempo”, questi pensionati sono se mai suscettibili ai miti e alle pratiche della “de-anzianizzazione”: e allora ecco l’abbigliamento giovanilizzante, ma soprattutto – secondo la norma imperante delle tre effe enunciata da Tommaso Labranca, autore di riferimento di Pecoraro: fitness, fashion, fiction – la palestra, “moschea laica” di “cazzoni novecenteschi” cedevoli alla dilagante cultura del corpo.
E se non è la palestra è il supermercato ad attirare, indistintamente, tutti: perché impuntarsi a vedere nel centro commerciale un non luogo anziché l’unica agorà rimasta, in un tempo in cui il discorso pubblico si è fatto “non-discorso”, “sempre lasciato aperto come un rubinetto spanato”, e più ci si guarda intorno e più si vedono solo “segni di desertificazione politica”?
Desertificazione cui non è estraneo e dalla quale non è certo stato risparmiato il Partito, entrato già nel Novecento in “una fase di trasformazione auto-annullante che ancora dura”, “un Partito che ormai appartiene a estranei”. Ma confusione e degrado sono ben più generali: quella in cui viviamo è “L’Era delle Stragi”, anche se “restiamo ormai abbastanza freddi rispetto al quotidiano flusso informativo sul rito di sangue”. Vivere nel “post-tutto” significa del resto prendere atto che la realtà, vicina e lontana, in cui siamo calati è “sostanzialmente un mistero che resterà tale ancora per un bel po’, forse per sempre, nel senso che sarà compreso solo dalle macchine superpotenti che prima o poi costruiremo, o che più probabilmente si auto-costruiranno.”
“Lo stradone – ha osservato Guido Mazzoni – non parla di Roma: parla di ciò che Roma, oggi, permette di capire”, ma per farlo lo scrittore è partito dalla microstoria e dall’osservazione minuta della realtà sociale che lo attornia, raccogliendo testimonianze documentandosi – si veda la nota bibliografica finale – come faceva Zola.
Uno scrittore, Pecoraro, che per restituire il frutto del suo lavoro usa una lingua ibrida, infarcita dei modi del parlato e continuamente oscillante fra registri diversi, evocando inevitabilmente il gusto di Gadda, il Gadda del Pasticciaccio soprattutto; uno scrittore che nutre il proprio discorso della distanza che sente separarlo da chi gli sta attorno, richiamando, nella rabbia amara che a tratti lo prende Bernhard, se Bernhard si fosse sentito salisburghese quanto i salisburghesi che detestava.
Un romanzo che non si conclude, che si interrompe piuttosto, o meglio: che l’autore “(chiude) per sfinimento” ma che avrebbe potuto continuare, che continuerà forse, riprendendo i temi e le idee che ci ha proposto e che a loro volta avevamo intravisto già nel precedente La vita in tempo di pace.
Una scrittura, in conclusione, che ha lo scopo opposto a quello che la letteratura molto spesso (sempre più?) si propone: una scrittura che non ha per fine né aiuta a metter fra parentesi il presente, o a fuggirne; che non cerca di metter ordine nel disordine del mondo né di guadagnare, e indurre nel lettore, l’illusione di un superiore distacco critico dalla realtà, ma che, al contrario, si pone come mezzo di un’adesione priva di infingimenti e avara di distinguo al tempo in cui viviamo, di un riconoscimento lucido ma non ripiegato su se stesso della catastrofe che per essersi consumata non cessa di manifestarsi, ad ogni livello, senza risparmiare nessun luogo, nessun ambito di vita. Nessuno, dovunque e comunque viva.
Brescia, 14 luglio 2019
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it