Prescrizioni per aspiranti scrittori Vanni Santoni, La scrittura non si insegna, minimum fax 2020 (pp. 99, euro 13)
Però la “mentalità dello scrittore”, il “pensare come uno scrittore”, sì, quello si può insegnare – leggiamo nell’introduzione – purché non si associ a questo modo di pensare l’immagine romantica dello “scrittore solitario e geniale, che lotta con le sue sole forze nonostante un’editoria sorda e corrotta che cerca di ostacolarlo in ogni modo”.
Segue una rassegna di pareri autorevoli secondo i quali, appunto, la scrittura non si insegna. Uno per tutti, Natalia Ginzburg: “Certo, se hai tra le mani un manoscritto, allora puoi dire la tua, osservare: qui mi sembra troppo lungo, qui troppo sovraffollato. Ma questo non è insegnare, si tratta di consigli”. Senonché, le scuole di scrittura sono dilagate e l’autore stesso ammette di tenere svariati corsi, pur essendo dell’opinione espressa nel titolo. Come si spiega? “Il motivo è uno, semplice e perentorio: la vastità infinita delle possibilità di un testo narrativo implica che infinite cose si possano scrivere in infiniti modi”. E allora le scuole di scrittura non sono dannose, sempre che non si prefiggano di insegnare definizioni e regole della narratologia: “se uno scrittore è interessato alla ‘tecniche’ – diceva Faulkner – farebbe meglio a darsi alla chirurgia o alla muratura. (…) Un giovane scrittore che pensa di poter seguire una teoria è un imbecille”. Insegnare a scrivere, insomma, non è offrire cibi nutrienti e già cucinati che si tratta solo di digerire: è piuttosto “una sorta di integratore, perché a scrivere si impara solo leggendo e scrivendo”.
Poste queste premesse, è possibile prendere in considerazione alcuni punti fondamentali, che l’autore sceglie di proporre in un torrenziale e franco, a volte provocatorio, colloquio con l’immaginario aspirante scrittore.
Quello che abbiamo fra le mani è infatti un pamphlet – l’autore stesso lo definisce così – che dà suggerimenti precisi: al di là del tono volutamente perentorio, essenziali, utili, seri. Perché tratti dalla propria concreta esperienza di scrittore.
E dunque, leggere innanzitutto, e leggere ancora, ma non di tutto. Occorre partire niente meno che da Proust e Joyce – sì: dalla Ricerca e dall’Ulisse – per affrontare poi alcuni “romanzi-mondo” del ’900 e proseguire con altri autori, molti altri (vedi elenco, anzi: elenchi). Perché “l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura” e “la prima cosa che va curata, se si vuole scrivere seriamente, è la dieta. Solo nutrendosi di libri buoni si può pensare di produrne uno decoroso”, senza dimenticare che ci sono libri buonissimi dai quali però “non è immediato imparare qualcosa” (Lo straniero di Camus, per dire).
Dopo la “dieta”, la “disciplina”: “Se vuoi scrivere seriamente dovrai togliere tempo a molte cose, e in ogni momento avere con te un libro. In genere gli altri interessi scompaiono e anche la vita privata ne patisce”. Inevitabile, perché si tratta – ecco il “segreto aureo” – di scrivere tutti i giorni almeno duemila battute, “meglio se a orari fissi” e senza impegni e scadenze incombenti: “l’ispirazione arriva regolarmente solo se ci si mette al lavoro con regolarità” e allora, solo allora “ci si scopre a pensare al romanzo o al racconto da scrivere anche mentre non si sta scrivendo” (e dunque sempre un taccuino a portata di mano) e la fondamentale fase di “incubazione”, successiva a quella dell’“ideazione”, può protrarsi durante tutta la fase di “stesura”, che è invece necessario non si mescoli con l’ultima, quella di “revisione”. E tanto meno con la navigazione in rete, anche se finalizzata a trovar vocaboli o notizie utili alla scrittura in corso. Meglio rimandare a dopo.
E il famoso blocco? il non saper o il non aver più voglia di scrivere? C’è il rimedio: portare avanti tre o quattro capitoli o racconti in contemporanea. Da uno o dall’altro si ripartirà. Ma se non si sa proprio cosa scrivere? Scrivere comunque, copiando la pagina di un grande, se occorre: l’essenziale è non stare neanche un giorno senza scrivere.
“Questo libro potrebbe finire qui”, non fosse che resta da “insegnare soprattutto cosa non fare”, come diceva Carver. Non “cadere nei cliché”, in primo luogo, nei “luoghi comuni”, che possono annidarsi nello stile come nella vicenda (per i primi, si veda l’illuminante elenco formule stereotipate e frasi fatte). In secondo luogo, “non scrivere cose noiose”, cose cioè in cui mancano “necessità” o “specificità”. Ovvero: “tutto ciò che metti in un testo deve servire a qualcosa”, e guai alle spiegazioni non richieste da parte del’autore; fuggire la genericità, inserendo pochi ma essenziali dettagli, con originalità, in modo da costruire una propria “voce”; non far mancare una dimensione di conflitto: “‘un gatto va sul tappeto’ non è una storia. ‘Un gatto va sul tappeto di un altro gatto’, invece, sì”.
E infine, una volta scritto, non omettere di revisionare, rileggere e rileggere una volta ancora (anche “in ordine inverso”, anche ad alta voce, anche su carta) quel che si è scritto. Ma non oltre quel punto oltre il quale invece di migliorare si comincia a peggiorare il testo. E poi farlo leggere ad altri, ad amici che siano “pari”: non il consorte o l’amico più caro, per intenderci, ma neanche l’autore noto, lo scrittore di professione che tempo per i manoscritti degli altri non ne ha. “Pari” sono gli amici che scrivono anche loro, o ci provano, non importa se trovati attraverso internet. Far leggere quel che si è scritto, dunque, anche pubblicandolo su blog personali o collettivi. Anche raccontandolo quando ancora lo stai scrivendo.
A quel punto, la pubblicazione non è che la forma finale dell’ostensione: finale, il che significa che il naturale e comprensibile desiderio di pubblicare non deve essere dominante rispetto a tutto il lavoro necessario per metterlo al mondo, il tuo romanzo. A quel punto evitare gli editori a pagamento. Meglio il self-publishing, “un’opzione più pulita”, ma senza pensare che rappresenti un primo passo sulla via del diventare davvero uno scrittore (né una buona presentazione per editori veri). Le riviste letterarie piuttosto (un utile elenco, anche di queste), o i premi per inediti. Quanto agli agenti editoriali, non sono una garanzia, anche se il loro ruolo è destinato a diventare sempre più decisivo. Una considerazione conclusiva, anche se affidata a una nota in una pagina lontana dalla fine del libro: se un libro è buono viene pubblicato. “Questo perché, sebbene gli editori vogliano una sola cosa – vendere libri – esiste ancora una fascia specifica di mercato, quella dei lettori di buona letteratura, ed è a essa che devi puntare”.
Brescia, 30 ottobre 2020
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it