Prima siamo bambini Ridhal&Kazinski, Morte di una sirena, Neri Pozza 2020 (pp. 208, euro 15)
Non è la Londra delle incisioni di Hogarth dedicate alla Carriera di una prostituta o del Doré dei suburbi infernali della città, né è la Londra sordida e sinistra di Dickens e del suo Oliver Twist, o la Parigi dei Misteri di Sue. Ma somiglia a queste città la Copenhagen di questo romanzo, che rimanda anche agli ambienti urbani e in generale al clima del Profumo di Patrick Süskind (chi non ha letto il libro conosce forse l’adattamento cinematografico, del 2006). Una Copenhagen che è “più che altro una fabbrica che produce malattie e indigenza”, nella quale si muove – forsennatamente, secondo il ritmo in crescendo che pervade il romanzo – un Hans Christian Andersen che per liberarsi dall’accusa di aver barbaramente ucciso una prostituta deve farsi detective. Non è il primo scrittore, il primo personaggio storico a imboccare questa via. Molti l’hanno fatto, dal grande Aristotele, niente meno (nei romanzi di Margareth Doody, tradotti da Sellerio), al più modesto Pellegrino Artusi, in tempi recenti (Il borghese pellegrino di Malvaldi, pubblicato dallo stesso editore, è di quest’anno).
L’Andersen che incontriamo qui – ad opera di un autore plurale – non è però quello che conosciamo, l’autore di favole, ma uno spiantato drammaturgo dalle ambizioni grandi e dai riconoscimenti, anche economici, nulli. Spilungone sgraziato dal grande naso, come pare fosse in realtà, ama le donne ma solo dal punto di vista estetico – e infatti frequenta la prostituta solo per ritagliarne silhouette nella carta – e preferisce, sia pure platonicamente gli uomini: il suo cuore non batte per la figlia di un suo influente protettore, come le biografie testimoniano, ma del figlio… E nel suo recente viaggio in Italia – Andersen è stato un grande estimatore della novità rappresentata dal treno, come ricordato dalla Storia dei viaggi in ferrovia di Schivelbusch (Einaudi 2003) – il suo sguardo “indugia(va) sui giovani, dorati pescatori napoletani”. Cionondimeno si batte, goffamente ma generosamente, per far emergere la verità sul delitto di cui è accusato, non solo per non finire sul patibolo ma anche per affetto e compassione nei confronti della sorella della prostituta e della figliolina di quella. È per confortare la bambina che inventa la sua prima fiaba, imboccando così la strada che lo renderà immortale. Ma intanto è in luoghi squallidi e bui che deve aggirarsi, e maleodoranti soprattutto: non sono profumi come nel romanzo di Süskind a insinuarsi si può dire in ogni pagina, ma puzze terribili, dal miasma che si leva dallo stagno in cui si raccolgono gli escrementi umani della città al fetore che lampade alimentate da olio di balena diffondono a teatro.
Fra scene granguignolesche e gesti truculenti ed efferati – sempre raccontati con l’aria di chi sa bene di attingere a un filone dell’orrore collaudato e di sicuro effetto – Andersen arriva alla conclusione che il male nasce dalla contrapposizione fra la logica e la fantasia “e che lui stesso è stato prescelto dal destino, prescelto come condottiero dei sogni (…) e di tutti coloro che vogliono essere qualcosa di diverso da ciò che altri intendono costringerli a diventare”.
Come il Brutto anatroccolo, verrebbe da pensare.
E difatti, alla fine, si trasformerà anche lui, l’infelice morto di fame, nell’autore di fiabe forte del convincimento che “il racconto trova sempre una via” e c’è “un modo di raccontare la storia che il re non può vietare” e che i bambini sanno capire e gli adulti no, perché “prima siamo bambini. Anime capaci di percepire, di comprendere e di credere, e poi, ecco che succede: ogni singolo anno successivo all’infanzia è come una pietra di una fortezza che cresce via via fino a diventare inespugnabile” e “i giorni grigi e gli innamoramenti tristi sono la malta che lega insieme i mattoni chiudendo fuori la bellezza del mondo”.
Brescia, 26 febbraio 2021
Carlo Simoni
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