L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia Gabriella Caramore, Garzanti 2023 (pp. 144, euro 14)
Contro i miti di un passato in cui i vecchi erano rispettati e la retorica delle gioie della vecchiaia, è possibile risignificare la propria esistenza a partire dalla sua ultima stagione, facendo esperienza del passaggio da una vita piena a una vita essenziale, da una vita socialmente utile a una vita sensatamente inutile.
Esiste una “sterminata biblioteca di scritti intorno alla vecchiaia e alla morte”: Caramore non vi aggiunge un ennesimo tentativo di sistemazione del tema, perché “è paradossale che sia una sovrabbondanza di parole che viene elargita a raccontare quel tratto di esistenza che si fa più silenziosa fino al tacere definitivo. In questo libro, dunque, non si troveranno che “pensieri, sensazioni, piccoli subbugli dell’anima”. E fra questi, innanzitutto, “un pensiero sempre più pressante: il tempo che passa”, che si fa “muro” oltre il quale non esiste futuro, quel futuro che il pensiero esige come condizione essenziale per dispiegarsi, mentre si impaluda in “giornate [che] si abbreviano per lo sforzo di portarle a termine”, e si rattrappisce di fronte al quanto, al quando, al come, a quanto resta da vivere, alla data e al modo in cui tutto finirà, senza che oltre tutto sia possibile sapere se sarà possibile “essere presenti” alla propria morte (pur sapendo che “per lo più, si muore come si è vissuti”).
Inevitabile, quindi, riconoscere che “la questione decisiva della vecchiaia si gioca sul tempo” e “il tempo è la vera materia di cui si nutre la vecchiaia”. Lo sapeva Giorgione, quando nel cartiglio che la sua Vecchia tiene in mano scriveva solo due parole: “Col tempo”.
Non mancano notazioni puntuali sulla condizione dei vecchi e sulle responsabilità che la determinano, condivise da istituzioni e società civile: da “una burocrazia astrusamente tecnologizzata, carente, estenuante” al fatto che “le case e il sistema sanitario non sono più in grado di accompagnare i morenti”, ma l’autrice, che punta pacatamente all’essenziale, mette in guardia da un passato “mitico”, in cui i vecchi erano rispettati (“Ma quali vecchi? (…) La moltitudine dei vecchi ha sempre patito il peso degli anni”) e accuditi amorevolmente dalla famiglia, quando in realtà gli si riservava una stanza in cui si finiva per entrare il meno possibile.
Al di là dei confronti fra la situazione attuale e quella del passato, si deve riconoscere una costante nel “mutismo impotente” che impedisce di parlare in modo chiaro, consapevole, aperto della caducità e della morte, perché “l’essere umano è inquietato da sé stesso, incomprensibile a sé stesso” e “che si debba morire è un dato di fatto. Che sia un dato di senso non è scontato”.
Non resta che rassegnarsi, dunque, a questa afasia? o agli eufemismi e ai modi dire convenzionali e collaudati, per parlare della fine cui ciascuno va incontro?
Caramore sostiene, sommessamente, che un’alternativa c’è e sta nel “pensare questi ultimi anni non attraverso lenti fisse, ma attraverso continui aggiustamenti di prospettive”: non allineandosi dunque alla retorica delle gioie della vecchiaia, ma applicandosi a un lavoro mai fatto prima – in cui i guadagni sono momentanei e le cadute ricorrenti – volto a realizzare una possibilità che la vecchiaia offre proponendosi, anche, come “la stagione che davvero può pensare sé stessa, risignificando tutta la vita”, sempre che non manchi la lucidità necessaria e si sia capaci di “tenere a freno la disillusione, la paura, il rimpianto”. Nella consapevolezza che “morire è ineluttabile. Ma non è tutto, in una vita” e dunque è possibile, nella sua ultima stagione, fare esperienza del “passaggio da una vita ‘piena’ a una vita ‘essenziale’, da una vita ‘socialmente utile’ a una vita ‘sensatamente inutile’. Come sensatamente inutile è la bellezza, la creazione artistica, la musica, la poesia, una carezza, uno sguardo”. E sullo sfondo una certezza, ineludibile, dolorosa, ma paradossalmente rasserenante: “noi ‘siamo’ il nostro tempo. Non ne ‘abbiamo’ il possesso”.
Un compito del tutto privato dunque, lasciato alla buona volontà e al discernimento dell’individuo, quello di affrontare umanamente la propria morte, e prima ancora la vecchiaia? No, chi ha ancora vita davanti a sé potrebbe, può, creare le condizioni perché questo avvenga se possiede, a monte, una capacità essenziale: quella di provare, nei confronti della vecchiaia, “la stessa premura, lo stesso stupore, la stessa dedizione che si ha verso l’infanzia”.
Brescia, 1 marzo 2024
Carlo Simoni
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