Le storie degli altri Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi 2018 (pp. 185, euro 17)
“Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”: più che una scelta, una condizione. La protagonista – scrittrice, ad Atene per insegnare in un corso di scrittura – si chiede se sia “più reale” “vivere nel momento o fuori di esso”: nel frattempo, osserva gli altri, li ascolta soprattutto.
Si forma l’opinione che la maggior parte della vita, e delle scelte che si compiono, non avviene in uno stato di consapevolezza, ed è una cosa che si paga, questa: “Talora penso che (…) uno forgi il suo destino in base a ciò di cui non si accorge o per cui non prova compassione, e che infine sarà costretto a sperimentare proprio ciò che non conosce né si sforza di comprendere.” Ma del resto, forse ha ragione quel tale (uno dei tanti che lei ascolta) convinto che “migliorare le cose è impossibile, e che ne sono altrettanto responsabili le brave e le cattive persone, e che forse l’idea stessa di miglioramento è una fantasia personale, solitaria (…)”. Un modo di vedere che sembra trovare un corrispettivo nella parole di quell’altro, secondo il quale “una storia può essere una semplice successione di eventi nei quali ci sentiamo coinvolti, ma sui quali non esercitiamo alcuna influenza”, per cui “è pericolosa la tendenza a romanzare le nostre esperienze, inducendoci a credere che nella vita umana ci sia un qualche disegno e che siamo più importanti di quanto siamo in realtà.”
Da riflessioni simili, e da una disposizione solo apparentemente passiva rispetto a quel che succede e a chi si incontra, nasce quello che non a caso l’autrice identifica come un recosonto, più che un romanzo. Un resoconto fitto, però, di considerazioni sull’artificiosità dello sforzarsi perché qualcosa accada, sulla convenienza di vivere come una rondine sorvola il territorio, seguendone le forme senza poggiar visi, sull’inevitabilità di avvertire l’esistenza “come un dolore segreto, un tormento interiore impossibile da condividere con gli altri”. Tanto che nel racconto di un altro, che pure lei segue, non può non sentire “il resoconto di ciò che lei non era”, una sorta di “antidescrizione” che, tuttavia, le dava un’idea della persona che era adesso.”
Molte chiacchiere si sono lette all’uscita di questo libro, assunto come prova della ormai decretata (e pare mai avvenuta) morte del romanzo: “Ho cercato di ripensare le convenzioni del romanzo moderno, ammette Cusk in un’intervista (“La Repubblica”, 13 settembre), per controbattere, però, che le sue scelte nascono solo dall’esigenza di “sentirsi libera”, non volendo “camuffare il fatto che la narrazione è compromessa da diversi punti di vista, come invece fa la letteratura tradizionale”, e dovendo quindi “stravolgere le convenzioni, in maniera intuitiva”. Ha detto bene un altro commentatore (Paolo di Paolo, sullo stesso giornale un paio di giorni dopo): “E’ come se Cusk trovasse la forma di ciò che scrive mentre la sta cercando. Funziona così: qualcuno narra di qualcuno che sta narrando, e si limita ad assecondare quel movimento”. Viene in mente il bel libro di un sociologo, Paolo Jedlowski: Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondandori 2002). La vita come intreccio di storie, nostre e degli altri, così il sociologo, ma non diversamente la romanziera: “M’interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite: si creano, senza volerlo, piccole strutture narrative affascinanti.” Affascinanti e tanto ricche da giustificare una trilogia, di cui Resoconto è il primo volume.