Le Magdalene Laundries d'Irlanda e le scelte di un uomo comune Claire Keegan, Piccole cose da nulla, Einaudi 2022 (pp. 94, euro 13)
“In ottobre gli alberi erano gialli (…) poi arrivavano i venti di novembre, soffiavano senza sosta spogliavano i rami”; “Mai viste tante cornacchie a dicembre”; “Per la settimana di Natale era prevista neve”: è con notazioni sul tempo atmosferico che spesso iniziano i capitoli, ci pare di vederlo il clima della cittadina irlandese di New Ross, e anche la sua gente, che “perlopiù sopportava il maltempo, scontenta: bottegai e artigiani, uomini e donne alle poste e in coda per la disoccupazione, alla sala bingo, nei pub e in friggitoria non facevano che parlare, ciascuno a modo suo, del freddo e di quanto era piovuto”. Dei tempi pare non si parli invece, i tempi difficili che l’Irlanda viveva negli anni Ottanta, segnati da una recessione che l’aveva portata a registrare il più alto tasso di disoccupazione in Europa.
È solo uno fra i tanti malcontenti e rassegnati, Bill Furlong, commerciante di carbone e legna, sempre in giro con il suo camion malandato, “più che mai deciso ad andare avanti a testa bassa, a stare al suo posto”. Ma la sua storia, di figlio senza padre, e poi di uomo che si divide con impegno e dedizione fra la sua famiglia e il lavoro, è il filo rosso che ci porterà al nocciolo del racconto, del resto preannunciato nella dedica dell’autrice “alle madri e ai figli che hanno sofferto nella Case della madre e del bambino e nelle Magdalene Laundries in Irlanda”. Istituti, questi ultimi, nati ad opera della Chiesa cattolica un po’ dappertutto nell’Europa del primo Ottocento. Anche a Brescia, per dire, era sorto un “Pio luogo delle Pericolanti”: orfane senza nessuno al mondo, ragazze che s’erano messe nei pasticci – come la madre di Bill, incinta a sedici anni non si sa di chi – e che poi non avevano trovato di meglio che darsi a una “vita immorale”. Sarà l’incontro con una di queste, ridotta a uno stato di prigionia abbrutente, a segnare una svolta nel travaglio che, pur sotto traccia – perché lui “era poco propenso a rimuginare il passato: lui era concentrato a mantenere le bambine” –, accompagnava da sempre il protagonista.
Di questo è fatto il racconto, del suo incerto, sofferto, non lineare cammino verso la decisione di guardare in fondo al proprio malessere, di aprire gli occhi sulla propria storia e trasgredire le norme del quieto vivere che regolano la comunità, la sostanziale omertà che circonda il convento in cui sono rinchiuse le ragazze: lo lasciamo nel momento in cui rompe la quotidianità, sua e della propria famiglia, quest’uomo, semplice ma coraggioso abbastanza per capire che non può più condurre la propria vita come se a comporla non fossero che le piccole cose da nulla che si susseguono un giorno dopo l’altro.
Si potrebbe raccontare di più, ma forse si è già detto troppo. Perché la qualità di questo romanzo breve sta nel suo non dire, o meglio: nella capacità di lasciar emergere i tratti della vicenda mentre apparentemente si parla d’altro, di mettere a fuoco le cose che contano raccontando di quelle più usuali e ripetitive. “Bisogna tralasciare ciò che non è necessario – ha spiegato in un’intervista recente la scrittrice –, scrivere quel tanto che basta senza essere ingenerosi. Il lettore completa il lavoro e gli si deve lasciare spazio”. È forse per questo, per questo “spazio” che ci è stato lasciato, e che queste pagine ci hanno condotto a colmare, che finiamo la lettura con un senso di riconoscenza, e il desiderio di tenere questo vicino ai racconti migliori che ci sia capitato di leggere. Come quelli di Čechov, non a caso tra gli autori più amati dalla scrittrice irlandese.
Brescia, 3 febbraio 2023
Carlo Simoni
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