L’apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore Ivano Dionigi, Raffaello Cortina Editore 2024
Assonanze, analogie, anticipazioni sorprendenti connotano il De rerum natura, una grande opera di “smascheramento”, volta a dimostrare come politica, religione, amore siano “tutte forme di alienazione e inganno”, così come la fiducia nel progresso tecnico che fa dimenticare agli uomini la realtà della morte e li condanna alla “nevrosi del potere politico ed economico, perseguito come miraggio di allungamento della vita”
“È il sentire cosmico e razionale di Lucrezio in sintonia con le domande dei nostri tempi?”. Rispondere a questa domanda è il compito che Dionigi si pone, anticipando comunque l’esito: “Lucrezio lo aveva detto”. È infatti la constatazione dei temi e dei motivi che rendono attuale la sua opera a ricorrere in queste pagine, a partire dal riconoscimento lucreziano della “coincidenza fra le proprietà delle res e quella dei verba”, della transitività fra parole e cose che fa della lingua il modello della realtà, secondo un modo di vedere che trova riscontro in autori contemporanei, come Italo Calvino, secondo il quale “la scrittura [è] modello d’ogni processo di realtà” e quindi esiste la possibilità di una comunicazione fra “mondo scritto” e “mondo non scritto”, quella possibilità che per Dante risiedeva nella fede e per Galileo nella matematica.
Venendo ai contenuti del poema, balza agli occhi la considerazione che se gli atomi sono eterni, non lo è il mondo che, per l’autore latino, “ha un’origine e una fine, una nascita e una morte”, e la “fine è ormai prossima” essendo il mondo entrato ormai in un’epoca di “decadenza e vecchiaia”. Con altre parole, l’astrofisica sembra dargli ragione”: “Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio – nota ad esempio Telmo Pievani – ma la Terra è già vecchia!” se si considera che dei 4 miliardi e mezzo di anni passati da quando è nata, la scienza prevede che – prima che venga inghiottita dal sole, ne resti uno, “se non ci estingueremo prima da soli”.
Oltre alla dimensione cosmologica, è quella morale a tenere il campo, ricordandoci innanzitutto che “quando la vita ti viene a trovare, si manifestano la nostra identità e autenticità: allora, tolta la maschera, rimane la cosa; caduto il velo, appare il vero: la verità è opera di sottrazione, non di accumulo”. Non a caso “il De rerum natura si presenta come una grande opera di smascheramento, di ‘disvelamento’”. Politica, religione, amore, così come la fiducia nel progresso tecnico o il pensiero della morte sono “tutte forme di alienazione e inganno”, cui vanno contrapposti principi da sottoporre tuttavia a un drastico capovolgimento di significato, incominciando dalla pietas, “l’atto della mente che senza alcun turbamento contempla tutte le cose” senza la mediazione di ideali o utopie, determinata ad “arrendersi al vero e combattere il falso”, separati e ben distinguibili, impermeabili a suggestioni come quelle che oggi animano la prospettiva di una “post-verità”.
Spesso l’autore non esplicita i parallelismi rilevabili fra il pensiero di Lucrezio e la cultura contemporanea, ma è chiaro che quello è il suo intento e gli bastano la selezione e l’accostamento delle citazioni per sollecitare il lettore a trovare assonanze e analogie o addirittura anticipazioni sorprendenti, come quando analizza doppiezze e delusioni della politica in una situazione di “collasso morale e politico”.
Se il giudizio lucreziano sull’impossibilità di una reale unione, di una sostanziale identificazione nel rapporto fra gli amanti anticipa la ben nota conclusione di Lacan (“Il rapporto sessuale non esiste”), è soprattutto il discorso sulla morte e la paura che la circonda a parlare alla sensibilità contemporanea, anche qui inducendoci a sentire la prefigurazione di una situazione in cui si può constatare “un proporzione inversa tra il progresso tecnico e materiale e il regresso interiore e morale”; il presentimento di un’epoca in cui Prometeo “si erge a signore e profeta”, mentre la sua “avventura non è così luminosa e salvifica”, perché “c’è un altro dono, ben più importante del fuoco e della tecnica, che Prometeo confessa di aver elargito agli uomini: averli distolti dal pensare al destino mortale, ponendo in loro ‘cieche speranze’. In questo modo gli uomini dimenticano di durare un giorno” e che “la tecnica è ben più debole della necessità”. L’oblio della finitudine non ha tuttavia cancellato la paura della morte, che può così continuare a produrre i suoi effetti nefasti: “L’avidità e la cieca ambizione, che spingono i miseri uomini a varcare i confini del giusto e, talvolta complici ed esecutori di delitti, a sforzarsi notte e giorno con fatica straordinaria per giungere al colmo della ricchezza: sono queste le piaghe della vita in gran parte alimentate dalla paura della morte (…). Alcuni si struggono nel desiderio di statue e di gloria (…) dimentichi che la causa dei loro affanni è proprio questo timore”. La morte dunque, commenta Dionigi, è causa della “nevrosi del potere politico ed economico – perseguito come miraggio di allungamento della vita, di sopravvivenza e di fuga dalla morte”. Una fuga immotivata, sostiene Lucrezio sulla scorta di Epicuro, essendo che “chi non esiste più non può essere infelice ed è come se non fosse mai nato”, e, secondo un modo di vedere non lontano da quello dell’Ecclesiaste: “sempre il vecchio estromesso dal nuovo cede il suo posto ed è destino che le cose si rinnovino l’una a spese dell’altra (…). Così le generazioni non cesseranno mai di sorgere le une dalle altre”. Del resto, “protraendo la vita non togliamo un istante al tempo della morte né possiamo intaccarlo per essere, forse, morti per un tempo più breve (…) Guarda come sia stata nulla per noi le vetustà del tempo eterno, trascorsa prima che noi nascessimo. Questo è lo specchio che la natura ci offre del tempo futuro che seguirà la nostra morte”.
Lucrezio rientra dunque – osserva Dionigi – nell’alveo del “pensiero classico [che] ha rimosso il problema della morte e ne ha sterilizzato il pathos, ritenendola comunque non una dimensione personale ed esistenziale ma l’esito di un processo naturale e impersonale”. Il che non esclude la considerazione angosciata dalle sofferenze che la morte impone, come testimoniato nel finale del poema, prova ultima della sua capacità di parlare “a noi e di noi”. Se infatti “volgiamo sguardo e pensiero a questi due anni orribili di pandemia, ravvisiamo consonanze raggelanti con quanto avvenuto venticinque secoli fa con la peste di Atene”, la cui descrizione conclude appunto il De rerum natura.
Brescia, 28 agosto 2024
Carlo Simoni
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