La crisi della narrazione Byung-Chul Han, Einaudi 2024
L’epocale e irreversibile crisi di un’attitudine radicata e di una pratica antica, la narrazione, rimanda a un più generale declino: quello dell’esperienza, e insieme a un vero e proprio crollo del senso del tempo e quindi della memoria. Fattori decisivi di questa involuzione sono lo “tsunami dell’informazione” e il proliferare di uno “storytelling rumoroso”, ossia di cronache e storie che non producono senso né comunità.
Il filosofo sudcoreano, trapiantato in Germania, prosegue il suo lavoro di critica della società contemporanea, che è insieme di attualizzazione e, anche se non dichiaratamente, di divulgazione delle idee maturate nella sua patria di elezione. Se, per esempio, riflettendo sulla Società senza dolore e la rimozione della sofferenza dalle nostre vite (in queste note nel luglio 2021), era Heidegger il pensatore di riferimento – lo stesso sul quale, del resto, l’autore si è formato – , qui è su un altro autore tedesco che il discorso torna, e non poteva essere diversamente. Da quando, a metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse Il narratore non c’è discorso sulla pratica del raccontare che possa prescindere dalla diagnosi allora espressa circa un’epocale e irreversibile crisi che non coinvolge solo un’attitudine radicata – addirittura costituiva del funzionamento del cervello umano, secondo alcuni – e una pratica antica, ma rimanda a un più generale declino, quello dell’esperienza, della possibilità di accumularne quale presupposto, appunto, del narrare.
Sulla base di questa constatazione, appare paradossale il proliferare di richiami alla narrazione ma – si badi – non per promuovere un “ritorno al racconto”, bensì per adeguarsi a uno “storytelling rumoroso”, ossia a una narrazione non motivata da una propria interna verità che ne faccia in qualche modo un’attività necessaria, ma costruita secondo regole estrinseche che la rendono contingente, e quindi interscambiabile, modificabile – quasi una pratica precorritrice delle performance di cui si dice capace l’intelligenza artificiale, verrebbe da dire.
Narrazioni che si risolvono in “offerte a buon mercato di senso e identità” e che, a differenza dei racconti, che permettevano il nascere di comunità, danno forma solo a community, semplici insiemi di “consumatori solitari” per lo più dediti a “una pornografica esibizione o promozione di sé stessi”. In sintesi: “grazie allo storytelling il capitalismo si appropria della prassi narrativa e la sottomette alle regole del consumo”, producendo storie che vendono.
Decisivo, in questa involuzione, l’apporto dell’informazione, dello “tsunami dell’informazione” cui siamo soggetti. Perché “l’informazione intensifica l’esperienza della contingenza, mentre il racconto la attenua, nella misura in cui rende ciò che è accidentale una necessità”, qualcosa di irripetibile. E non si tratta di pensare solo alle opere letterarie, occorre aggiungere, ma anche ai racconti con cui i vecchi fino a qualche tempo fa sapevano raccontare le loro esperienze, i casi della loro vita, mentre “al giorno d’oggi ci raccontiamo l’un l’altro sempre meno storie”.
Se “siamo meglio informati ma completamente privi di orientamento” è anche perché l’informazione non è portatrice di senso, nel significato originario del termine: non indica una direzione. Né costruisce una storia, frammentando il tempo nei momenti della cronaca.
Non solo la quantità tuttavia, anche i mezzi dell’informazione contano: “lo smartphone non è un medium narrativo”: “è proprio il suo dispositivo tecnico a ostacolare la pratica di raccontare storie. Cliccare e scorrere non sono gesti narrativi. (…) Raccontare presuppone, di contro, un restare in ascolto e un’attenzione profonda”. Presuppone pazienza – e una durata sufficiente dell’attenzione, non distratta dagli imperativi e dalle tentazioni del multitasking – sia da parte di chi narra che di chi ascolta. Il contrario delle “frenesia” con cui “postiamo, condividiamo e mettiamo like”, sottomettendoci a un dominio che ha l’apparenza della libertà, sanzionando con i nostri comportamenti, ormai indisponibili alla trasmissione intergenerazionale, il deperimento della saggezza in favore delle tecniche di problem solving e la degradazione del futuro a semplice aggiornamento di un presente dimentico del passato. Quel passato che è proprio la narrazione a poter far tornare vivo, che è compito del narratore redimere, ma che appunto, è travolto nel “crollo del tempo” di cui siamo testimoni, e protagonisti; con cui si misurarono autori tanto diversi fra loro come Proust e Heidegger: Il tempo ritrovato, conclusione della Recherche, ed Essere e tempo vengono pubblicati nello stesso anno, nel 1927.
La crisi del tempo porta con sé una crisi della memoria, che è “narrativa – e cioè seleziona e collega gli eventi –, mentre l’archiviazione digitale lavora aggiungendo un dato a un altro, in modo cumulativo”; “la vita narrata o ricordata è necessariamente lacunosa”, mentre la digitalizzazione produce “una registrazione della vita che sia sempre più priva di lacune (…). Tanto meno viene raccontata, tanti più dati e informazioni vengono raccolti”. E viceversa…
Ma non si tratta solo di procedure consentite dalle nuove tecnologie: l’accumulo di informazioni e la loro costante ossessiva comunicazione e condivisione coprono il vuoto di senso che essi stessi contribuiscono a scavare nella vita.
Brescia, 3 luglio 2024
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it