Giallo montagna Ilaria Tuti, Fiori sopra l’inferno, Longanesi 2018 (pp. 366, euro16,90 )
Nella migrazione del giallo verso la montagna, fra le l’agente Vogel di Donato Carrisi (La ragazza nella nebbia, Longanesi 2917) e il Jeremiah Salinger di Luca D’Andrea (La sostanza del male, Einaudi 2016, seguito l’anno scorso da Lissy) fa la sua apparizione Teresa Battaglia, un commissario che anche con il Rocco Schiavone di Manzini ha parecchio in comune.
Ruvida, burbera ai limiti della decenza con i suoi, ma capace di muoversi in un ambiente che pure non è il suo, e di cogliere, “nonostante i panorami annichilenti, l’aspetto fiabesco e i silenzi delle vette”, i “segreti inconfessabili” che si nascondono nelle case di quelli che lì hanno sempre vissuto, “uniti contro il mondo esterno e ciechi, per comodità, verso le proprie colpe”. Perché lei – malata nel corpo, e dunque fragile e sempre in bilico, ma anche nell’anima, di un dolore che non sa passare – non ha molto da perdere: in questo, paradossalmente vicina al serial killer, di cui sa cogliere la destrezza e insieme la ferocia (“ma c’è davvero differenza fra le due cose? E’ forse bravo il lupo che divora la preda o è semplicemente se stesso?”). Ma non si ferma qui: il mostro è stato un bambino, ha una storia (e che storia…), per cui è uno di quelli che “vedono l’inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno”. Marini, il suo collaboratore nelle indagini, la segue sollecito, ne sopporta i modi rudi e i sarcasmi senza smettere di cercarne l’approvazione. Ottenendola, di fatto, quando intuisce la cifra che contraddistingue l’assassino, il quale mutila le sue vittime perché “ruba i sensi”, cavando gli occhi per appropriarsi della vista, o dell’olfatto e dell’udito privandole di naso e orecchie (secondo procedure che non possono non evocare Hannibal the cannibal).
Il montaggio dei piani temporali (le due vicende, passata e presente, che crescono in parallelo per poi convergere), ma soprattutto la velocità dello sviluppo tengono stretto il lettore fino alla fine, lasciandogli un’impressione simile a quella che resta dopo essersi bevuti uno dei molti film ad alto tasso adrenalinico che la TV ci serve ogni sera: che l’immaginario del cinema abbia ormai permeato, dopo esserne stato attraversato, quello letterario è un fatto. Nient’affatto deprecabile. Ma qui, si direbbe che il respiro della storia sia piuttosto quello televisivo, se la distinzione ha un senso: un aspetto su cui riflettere…
Ruvida, burbera ai limiti della decenza con i suoi, ma capace di muoversi in un ambiente che pure non è il suo, e di cogliere, “nonostante i panorami annichilenti, l’aspetto fiabesco e i silenzi delle vette”, i “segreti inconfessabili” che si nascondono nelle case di quelli che lì hanno sempre vissuto, “uniti contro il mondo esterno e ciechi, per comodità, verso le proprie colpe”. Perché lei – malata nel corpo, e dunque fragile e sempre in bilico, ma anche nell’anima, di un dolore che non sa passare – non ha molto da perdere: in questo, paradossalmente vicina al serial killer, di cui sa cogliere la destrezza e insieme la ferocia (“ma c’è davvero differenza fra le due cose? E’ forse bravo il lupo che divora la preda o è semplicemente se stesso?”). Ma non si ferma qui: il mostro è stato un bambino, ha una storia (e che storia…), per cui è uno di quelli che “vedono l’inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno”. Marini, il suo collaboratore nelle indagini, la segue sollecito, ne sopporta i modi rudi e i sarcasmi senza smettere di cercarne l’approvazione. Ottenendola, di fatto, quando intuisce la cifra che contraddistingue l’assassino, il quale mutila le sue vittime perché “ruba i sensi”, cavando gli occhi per appropriarsi della vista, o dell’olfatto e dell’udito privandole di naso e orecchie (secondo procedure che non possono non evocare Hannibal the cannibal).
Il montaggio dei piani temporali (le due vicende, passata e presente, che crescono in parallelo per poi convergere), ma soprattutto la velocità dello sviluppo tengono stretto il lettore fino alla fine, lasciandogli un’impressione simile a quella che resta dopo essersi bevuti uno dei molti film ad alto tasso adrenalinico che la TV ci serve ogni sera: che l’immaginario del cinema abbia ormai permeato, dopo esserne stato attraversato, quello letterario è un fatto. Nient’affatto deprecabile. Ma qui, si direbbe che il respiro della storia sia piuttosto quello televisivo, se la distinzione ha un senso: un aspetto su cui riflettere…