Crescere nell’epoca della grande trasformazione Gian Arturo Ferrari, Ragazzo italiano, Feltrinelli 2020 (pp. 311, euro 18)
Ci si entra da subito in questo romanzo, soprattutto se l’età è quella. Quella di chi ricorda bene l’Italia prima del boom economico, l’Italia degli anni Cinquanta. Ma non si tratta solo di una memoria comune, nella quale il lettore attempato, diciamo, si appaesa. Anche chi, più giovane, di quegli anni serba solo ricordi di seconda mano, per sentito dire, si sente fin dalle prime pagine accompagnato da una narrazione in cui il punto di vista del bambino, che quell’epoca ha vissuto, sa virtuosamente contaminarsi con quello dell’adulto che ricorda: è quello che accade nelle autobiografie riuscite, anche se, come questa, scritte in terza persona. Così come raggiunto è l’obiettivo di farsi seguire dal lettore in un andirivieni continuo fra la storia di Ninni e la Storia collettiva. Obiettivo del resto evidente sin da titolo, in cui il ragazzo di cui si racconta è esemplarmente un ragazzo italiano, personaggio la cui formazione è tutt’uno con quella del Paese uscito dalla guerra.
L’inevitabile singolarità della costellazione familiare (la nonna maestra, la madre apprensiva e amorevole, il padre ombroso e distante) si coniuga con la modernizzazione che investe la società e ridefinisce mentalità e aspirazioni, traducendosi in un nuovo modo di abitare e gestire la vita quotidiana, e nella comparsa di oggetti che chi è venuto dopo ritiene presenti da sempre nelle case, naturali, e invece segnarono il cambiamento: gli elettrodomestici e un arredamento nel quale “tutti volevano dimenticare al più presto le loro origini e le loro fatiche” per “installarsi in quella nuova immagine di sé di cui l’arredamento era l’immagine visibile”, mentre, fuori casa, il paesaggio urbano stava mutando, con i grandi magazzini e, soprattutto, con le automobili.
La “piccola carriera” del padre permette alla famiglia di “pagare il debito” contratto per trasferirsi a Milano “all’incirca quando l’Italia (finisce) di pagare il suo”, con la ricostruzione e poi con gli anni dello sviluppo. Partecipe della grande trasformazione, non sfugge tuttavia, al protagonista, il successivo diffondersi di una diversa “atmosfera generale”, in cui le persone sembrano aver smesso di cercare, “disperatamente, di andare avanti”: “Si erano calmati, cominciavano a essere soddisfatti. Dei loro controbuffet, dei loro lampadari di Boemia. Ce l’avevano fatta e adesso che avevano perso lo spirito eroico si capiva che quello per cui avevano lottato era in realtà ben poca cosa. E persino la pur legittima soddisfazione si colorava di angustia. Ingrigivano. Anche il babbo, che a casa non lavorava più [anche a casa, portandosi il lavoro dall’ufficio], ingrassava, aveva perso lo scatto”.
La scoperta della città, dalla periferia al centro, la colonia estiva, la scuola, la politica studentesca e, finalmente, il superamento della balbuzie che da sempre aveva afflitto Ninni… Come in quasi tutte le autobiografie, l’aura di cui il racconto degli anni dell’infanzia era pervaso, e che si era solo stemperata in quello dell’adolescenza, va perdendosi nella cronaca della prima giovinezza: il bambino e il ragazzino – cui sono intitolate la prima e la seconda parte – ci resteranno nella memoria più del ragazzo della terza.
Brescia, 22 aprile 2020
Carlo Simoni
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