Ci si nasconde, iniziando così a scomparire Paola Baratto, Lascio che l’ombra, Manni 2019 (pp. 125, euro 14)
Dopo aver letto, a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per dibattito.
La cultura di Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione, non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere, già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia. Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo quelli che amano esclusivamente intrattenere ed essere intrattenuti, ma anche coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e non si può chiamare altrimenti, che pensiero critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso, indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli scenari presenti».
Un intellettuale del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare, tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita l’ormai attempato professor Console.
Sono loro due a cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza, nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma di affascinare. Senonché, ancor prima dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva, lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere. Meglio: di sparire.
«Giorno dopo giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene, perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella ubiquitaria e pervasiva dei social; di conservare quel quid che non accetta di sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si scompare anche ai propri occhi».
Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di Giardini d’inverno e Tra nevi ingenue.
Brescia, 1 settembre 2019
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it