Luoghi dell’inaccessibile Jazmina Barrera, Quaderno dei fari, La Nuova Frontiera 2021 (pp. 128, euro 15)
Un libro sui fari senza immagini di fari. Non uno dei tanti libri fotografici su queste strutture che sono luoghi, ma un libro di storia e di storie, di pensieri e divagazioni. In ciò accostabile a Il ciclope di Paolo Rumiz (Feltrinelli 2015), ma rispetto a quello più marcatamente segnato da digressioni autobiografiche e, soprattutto, considerazioni esistenziali. Storia dei fari per sommi capi, da quello di Alessandria che diede il nome a tutti gli altri a quelli moderni che non han bisogno di un uomo del faro. Storia dei fari ma anche dei loro guardiani quindi, della loro vita del tutto unica, di per sé generatrice di storie: “Nel confino del faro, il guardiano è come un naufrago. Naufrago per volontà propria. Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, da una delusione amorosa o ideologica, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio.”
È nell’alone metaforico inseparabile dai fari e dai loro guardiani che è facile rintracciare la ragione della loro presenza nella letteratura. Non è però una compilazione diligente quella che l’autrice ci offre in proposito, ma il richiamo di alcuni esempi funzionali al suo discorso: la solitudine di chi nel faro abita è ben presente alla signora Ramsay di Virginia Woolf, che raccomanda alle figlie di “portare ai guardiani del faro tutto il possibile per aiutarli, confortarli, intrattenerli, perché dev’essere terribile e noiosissimo restare confinati lì per tutto quel tempo senza niente da fare”, e, mosso da un’attenzione analoga, Edgar Allan Poe ci racconta, nel suo ultimo racconto, proprio di un guardiano di faro e del suo cane, Nettuno: “Il cielo volesse che negli uomini potessi riporre metà della fiducia che mi ispira quel povero cane, perché allora il mondo e io non avremmo divorziato neppure per un anno”. Sono questi due gli autori citati più spesso, perché nel titolo della Woolf, Al faro, in quella preposizione, “c’è l’intera storia che si muove sempre verso il faro, il quale è innanzitutto ideale, ricordo, promessa: l’inaccessibile”, e perché la storia del guardiano di Poe è rimasta incompiuta ma tanto allusiva a una condizione che va oltre quella del protagonista da indurre l’autrice a scriverne la conclusione, con esiti che non mortificano certo l’ispirazione di Poe.
Ma se il fascino dei fari ne fa riferimento suggestivo in un orizzonte narrativo, perché lei, la scrittrice, sente di doversene occupare? Perché “quando visito i fari, quando leggo o scrivo di fari, mi allontano da me stessa. A qualcuno piace guardare dentro i pozzi. A me fa venire le vertigini. Ma con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado in luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice”. I fari, senza perdere l’individualità che connota la vicenda, la collocazione, la fisionomia di ciascuno si fanno via via centri attrattori di riflessioni dominate da un’acuta consapevolezza che la dismissione, la contraffazione, la distruzione di monumenti come ormai i fari appaiono porti con sé la perdita di interi mondi, di modi di vivere, di tipi d’uomo, di storie e di immaginari, di esperienze. Lo sapeva Hopper, convinto che “il faro è un individuo solitario che affronta con stoicismo gli attacchi della società industriale”. “Mi domando – si chiede Barrera – se un giorno saranno abbandonati del tutto”, eliminati da GPS e computer, “o se diventeranno (come pare essere il loro destino) alberghi, musei, reliquie per il diletto di milionari, solitari archeologi, storici e curiosi. Spogliati della loro funzione, diventano oggetti da collezionare”. Anche se si tratta di una collezione impossibile, destinata a rimanere priva di tutti i fari che non si arriverà mai a visitare, o che erano stati ma non sono più.
“Devo abbandonare il faro – conclude l’autrice –, scendere dalla torre, affrontare il trambusto e l’insolenza e il rumore della terra ferma”.
Brescia, 19 novembre 2021
Carlo Simoni
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