Espedienti e strategie per affrontare il pensiero della morte Julian Barnes, Niente paura, Einaudi 2022 (pp. 248, euro 19,50)
“La consapevolezza della morte si è palesata presto per me, quando avevo tredici o quattordici anni. (…) Di recente il mio amico R. mi ha domandato se penso spesso alla morte, e in quali circostanze. Almeno una volta al giorno, gli ho risposto, senza escludere gli intermittenti attacchi notturni. L’idea della morte si insinua sovente nella mia coscienza quando il mondo di fuori offre un parallelo evidente: al calare della sera, quando le giornate si accorciano, o verso la fine di una lunga camminata.” Si può scrivere un libro all’insegna dell’ironia e dell’umorismo partendo da presupposti simili? Barnes lo fa, raccontando aneddoti sui propri genitori e il fratello filosofo, sulla propria adolescenza e la propria formazione, all’insegna di un’irreligiosità che ammette tuttavia un continuo rimuginare sulla possibilità di credere nell’esistenza di Dio e su quel che significa il non credervi (“Non credo in Dio, però mi manca. Ecco cosa rispondo quando me lo domandano”), e non esclude la frequentazione dei luoghi di culto (“Entro sovente nelle chiese, ma per interessi architettonici”). Ma attenzione, tutto questo parlar di sé non deve trarre in inganno: “questa non è la mia autobiografia”, avverte l’autore. Più che fatti sono pensieri e citazioni a costellare la narrazione, se di narrazione si può parlare (ma neanche sembrerebbe di poter tirare in ballo la definizione di romanzo-saggio, mal accordandosi la divagazione continua a quello che comunemente riconosciamo come un saggio).
Citazioni dunque: “Dovrei anche avvertirvi – si premura infatti di scrivere già nelle prima pagine Barnes – che in questo libro compariranno molti scrittori”. Flaubert ad esempio, che raccomandava di “essere all’altezza del proprio destino, vale a dire non meno imperturbabili. A furia di ripetersi ‘Ecco. Ecco’ e di contemplare il buco nero dell’abisso, ci si tranquillizza”. E sembra non la pensasse diversamente Montaigne, il quale “pensava che, non potendo vincere la morte, la migliore forma di contrattacco consistesse nell’averla sempre in testa”. Romanzieri e saggisti sono dunque i compagni di strada riconosciuti, ma anche compositori come Rachmaninov, “un uomo terrorizzato dalla morte ma anche dalla possibilità di sopravvivere ad essa” e che “sorprendeva gli amici solo quando non voleva parlare di morte.” Quale sia l’arte praticata, ciò che accomuna gli autori citati è l’essere stati pervicaci e coerenti “tanatofobi”. Come l’autore, appunto, per il quale pensiero della morte e scrittura sono parenti stretti, essendo che “(inventare) storie” rivela la vaga speranza che “il suo nome, e una non meglio precisata porzione dell’individualità, continuino ad esistere anche dopo la morte fisica”.
Anche se, deve riconoscere, “scrivere di morte non riduce né aumenta le mie paure”. Il che non gli ha impedito talvolta di fantasticare sul suo “ultimo libro, quello che avrebbe raccolto tutti i pensieri sulla morte”, un libro forse destinato a rimanere incompiuto: “‘Mi parli francamente dottore (…). Quanto tempo mi resta?’ ‘Quanto tempo? Direi 200 pagine. 250 se la fortuna è dalla sua parte o se lavora in fretta.” Ma la verve ironica di Barnes non si ferma qui: “Potrei essere morto quando leggerete questa frase, nel qual caso ogni critica al libro non avrà risconto. Ma potrebbe accadere il contrario, potremmo essere vivi, voi e io (…), e voi potreste morire prima di me. Ci avete pensato? Perdonatemi se mi permetto di tirare in ballo la cosa, ma si tratta di una possibilità, almeno per qualche anno ancora, pertanto le mie più sentite condoglianze ai vostri cari.” Perché, questo è certo, “i casi sono due, o io verrò al vostro funerale, o voi al mio.” E potrebbe anche accadere che la morte dell’autore si verificasse proprio mentre sta scrivendo questo libro, “il che sarebbe una bella fregatura per entrambi, a meno che non foste stati lì lì per abbandonare la lettura, esattamente al punto in cui la narrativa si interrompe. Potrei morire persino nel mezzo di una frase. Persino nel bel mezzo di una paro ”.
Non ha altro mezzo, Barnes, di parlare della morte se non in questo modo fra l’erudito e il – almeno apparentemente – divertito? Chi ha letto l’ultima parte di Livelli di vita (Einaudi 2013), dedicato al periodo seguito alla morte della moglie, sa che non è così.
Brescia, 20 maggio 2022
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it