La passione del passato, la gioia di raccontare Alessandro Barbero, Gli occhi di Venezia, Mondadori 2020 (pp. 432, euro 12,50)
La “passione del passato” cui dobbiamo sia saggi di storia che romanzi storici è al servizio, nei migliori di questi ultimi, della riflessione sul presente e su sé stessi. Un esempio (eccellente) per tutti: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la quale, non a caso, negli appunti redatti in contemporanea alla stesura del romanzo affermava che “Ai tempi nostri il romanzo storico, o quello che per comodità si vuol chiamare così, non può essere che immerso in un tempo ritrovato: la presa di possesso d’un mondo interiore”. Non sono tuttavia da sottovalutare quegli altri romanzi storici, che, senz’altro con minori pretese, convogliano la narrazione di vicende trascorse semplicemente nella gioia di raccontare e proprio nella trasmissione al lettore di questo piacere aprono le porte di quel che è per sempre andato. Un esempio di questo genere – richiamato in queste note il 7 ottobre 2018 – è Magellano di Gianluca Barbera (Castelvecchi 2018), in cui prevale, si diceva, il “piacere del racconto puro”, la “narratività” che era “caratteristica del romanzo storico classico”.
Lo stesso si può dire del romanzo di un altro autore (dal nome per puro caso assonante con quello citato): Alessandro Barbero, storico di professione, figura divenuta negli ultimi anni popolare per la verve divulgativa dimostrata in documentari televisivi e libri ponderosi (come l’ultimo, Dante, Laterza 2020). Storico proclive alla narrazione, dunque, anche nell’esercizio delle sue funzioni, ha voluto già anni fa mettere le sue conoscenze alla prova del romanzo storico. Risale al 2011 infatti la prima edizione degli Occhi di Venezia, recentemente riproposto negli Oscar Mondadori.
È la Venezia di fine Cinquecento a tornare in vita in queste pagine, quando il ponte di Rialto “era quasi bloccato dai lavori” perché “da qualche mese avevano cominciato a demolire l’antica struttura di legno e si diceva che l’avrebbero ricostruito tutto di marmo, ma intanto per attraversare il Canal Grande restava solo una passerella su cui transitava una persona per volta”: ecco, in cenni come questo, la capacità essenziale di trasmettere le notizie su cui un romanzo storico è basato sfuggendo al rischio del didascalismo e anzi aggiungendo potere evocativo al racconto, suggerendo confronti con ciò di cui abbiano esperienza diretta. Il ponte di Rialto che conosciamo, in questo caso, ben diverso da quello – di legno, appunto – che vediamo nel Miracolo della Croce a Rialto di Carpaccio. Ma, al di là del paesaggio urbano, sono le diseguaglianze sociali, la realtà di lavori duri quanto poco retribuiti, lo strapotere dei patrizi a entrare nella vicenda narrata, così come la dimensione internazionale dei traffici della Serenissima. E allora lasciamo la città per calarci nel mondo delle galere e dei loro rematori, tra cui, inopinatamente, si viene a trovare il protagonista. Da qui in poi il romanzo procederà sui due binari: da un lato la storia di Bianca, moglie del Michele suo malgrado imbarcato, dall’altro la storia del giovane che ci porta al Mediterraneo dell’età moderna, in cui tutti, cristiani musulmani ed ebrei, si capiscono perché la lingua corrente è un “italiano imbastardito che era la lingua franca di tutti i marinai”.
Proseguendo il racconto, denso di colpi di scena che costellano le avventure vissute dai personaggi, il romanzo di Barbero si presta a confronti interessanti. Per esempio con un altro romanzo storico da poco uscito, L’ombra del fuoco di Hervé le Corre (e/o 2020), dedicato alla “settimana di sangue” che giusto 150 anni fa concluse tragicamente il sogno della Comune di Parigi. Una storia ben più vicina a noi, documentata persino fotograficamente. Si potrebbe dunque pensare che il quadro tracciato dal romanzo possa essere più vivido rispetto a quello riferito a un mondo distante da noi più di quattro secoli fa, ma non è così: il gusto del susseguirsi seriale delle scene, su uno sfondo di bombardamenti e morti ammazzati che accompagna il racconto sino a farsi monotono; i tratti stereotipati dei personaggi, che sembrano spesso ricalcati dai Miserabili di Hugo; il riferimento ai luoghi, che più che evocarli – come sarebbe possibile trattandosi di un’altra città dell’anima, al pari di Venezia – ne offre solo una toponomastica che si fa via via stucchevole.
No, la “passione del passato” chiede altro, non un semplice montaggio da serie televisiva, di quelle mediocri oltre tutto.
Brescia, 26 marzo 2021
Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it