Uomini e cani sottotitolo per articolo esempio
Un \”apologo”: è l’autore stesso a definire in questo modo il suo romanzo. Ma Esopo non c’entra, per due ragioni: questi cani non insegnano nulla agli uomini.
Sono loro piuttosto, gli animali, a imparare qualcosa dovendo trarre conclusioni non lusinghiere per gli esseri con cui si trovano a convivere. E poi questi cani restano cani: possono compiacere l’umano guardando con lui un film in televisione, ma non si capacitano della sua soddisfazione: come si può godere di qualcosa che non ha odori? Neanche Orwell e la sua fattoria sono riferimenti pertinenti, anche se sembrano evocati dalla lotta intestina che divide anche i cani di Alexis. Senonché non si tratta, qui, di una pura lotta di potere: a dividerli in due fazioni è il diverso giudizio sulle conseguenze nate dalla scommessa fatta niente meno che da Apollo ed Ermes (in Alexis il deus ex machina non risolve, non conclude, ma innesca il racconto e lo complica via via). Perché di questo si tratta: i due dei fanno l’esperimento di dare l’intelligenza degli umani – e quindi ciò che la contraddistingue, il linguaggio – ai cani di una clinica veterinaria e, appunto, scommettono: secondo Apollo – che sembra pensarla un po’ come il pastore errante dell’Asia – diventeranno infelici quanto gli uomini; secondo Ermes no: ci guadagneranno. Se uno solo degli animali morirà felice, dunque, il primo sarà smentito e il secondo vincerà.
Ma la faccenda non è così semplice: il pensiero “ci impedisce di essere cani e ci allontana da ciò che è giusto per noi”, pensano alcuni. “Ma sappiamo cose che gli altri non sanno”, pensano altri, primo fra tutti Prince , che si dà alle composizioni poetiche. È la “caninità” a rendere gli uni nemici degli altri: è un conflitto identitario a scatenare la lotta fratricida. Peripezie e avventure, incontri minacciosi e nuove amicizie: la storia si svolge fra strade e parchi di Toronto, richiamando a volte scenari da Lilli e il vagabondo, soprattutto quando uno dei cani si accasa e stringe amicizia con la padrona. Spaventata dapprima dalle facoltà che scopre nel barbone che ha adottato, e poi via via incuriosita e sempre più amica dell’animale, al punto da porgli domande che non farebbe al marito. Tipo: che cosa pensi dell’amore? E qui la comprensione reciproca si incaglia. Non basta una lingua comune: le visioni del mondo e il modo di starci sono irrimediabilmente diversi. “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”, diceva Wittgenstein, e difatti al cane non vengono in mente che possibilità canine: fedeltà, sottomissione. E del resto, montare ed esser montati non hanno proprio nulla a che fare con sentimenti reciproci. Ma le tiene per sé queste riflessioni, perché lo sente: la padrona non lo capirebbe…
E dunque? Procedendo, la lettura sembra dare ragione ad Apollo: non appaiono portatori di felicità l’accorgersi che si sta per morire, e l’aver coscienza del passare del tempo anche quando la morte è ancora lontana; lo sperimentare il sentimento della la noia; il rischiare di assumere, insieme al linguaggio, la triste capacità di ferire mentre si intende confortare; l’acquisire quell’altra, pure infida, di comprendere anche chi è folle, col risultato di diventare folli a propria volta. Vincerà Apollo dunque?
Andrebbe a finire così se il rimpianto che la morte della padrona suscita nel suo cane non facesse balenare a quest’ultimo un’idea di che cosa sia l’amore, e l’immortalità della poesia non desse in extremis una speranza all’altro cane, il poeta.
Sono loro piuttosto, gli animali, a imparare qualcosa dovendo trarre conclusioni non lusinghiere per gli esseri con cui si trovano a convivere. E poi questi cani restano cani: possono compiacere l’umano guardando con lui un film in televisione, ma non si capacitano della sua soddisfazione: come si può godere di qualcosa che non ha odori? Neanche Orwell e la sua fattoria sono riferimenti pertinenti, anche se sembrano evocati dalla lotta intestina che divide anche i cani di Alexis. Senonché non si tratta, qui, di una pura lotta di potere: a dividerli in due fazioni è il diverso giudizio sulle conseguenze nate dalla scommessa fatta niente meno che da Apollo ed Ermes (in Alexis il deus ex machina non risolve, non conclude, ma innesca il racconto e lo complica via via). Perché di questo si tratta: i due dei fanno l’esperimento di dare l’intelligenza degli umani – e quindi ciò che la contraddistingue, il linguaggio – ai cani di una clinica veterinaria e, appunto, scommettono: secondo Apollo – che sembra pensarla un po’ come il pastore errante dell’Asia – diventeranno infelici quanto gli uomini; secondo Ermes no: ci guadagneranno. Se uno solo degli animali morirà felice, dunque, il primo sarà smentito e il secondo vincerà.
Ma la faccenda non è così semplice: il pensiero “ci impedisce di essere cani e ci allontana da ciò che è giusto per noi”, pensano alcuni. “Ma sappiamo cose che gli altri non sanno”, pensano altri, primo fra tutti Prince , che si dà alle composizioni poetiche. È la “caninità” a rendere gli uni nemici degli altri: è un conflitto identitario a scatenare la lotta fratricida. Peripezie e avventure, incontri minacciosi e nuove amicizie: la storia si svolge fra strade e parchi di Toronto, richiamando a volte scenari da Lilli e il vagabondo, soprattutto quando uno dei cani si accasa e stringe amicizia con la padrona. Spaventata dapprima dalle facoltà che scopre nel barbone che ha adottato, e poi via via incuriosita e sempre più amica dell’animale, al punto da porgli domande che non farebbe al marito. Tipo: che cosa pensi dell’amore? E qui la comprensione reciproca si incaglia. Non basta una lingua comune: le visioni del mondo e il modo di starci sono irrimediabilmente diversi. “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”, diceva Wittgenstein, e difatti al cane non vengono in mente che possibilità canine: fedeltà, sottomissione. E del resto, montare ed esser montati non hanno proprio nulla a che fare con sentimenti reciproci. Ma le tiene per sé queste riflessioni, perché lo sente: la padrona non lo capirebbe…
E dunque? Procedendo, la lettura sembra dare ragione ad Apollo: non appaiono portatori di felicità l’accorgersi che si sta per morire, e l’aver coscienza del passare del tempo anche quando la morte è ancora lontana; lo sperimentare il sentimento della la noia; il rischiare di assumere, insieme al linguaggio, la triste capacità di ferire mentre si intende confortare; l’acquisire quell’altra, pure infida, di comprendere anche chi è folle, col risultato di diventare folli a propria volta. Vincerà Apollo dunque?
Andrebbe a finire così se il rimpianto che la morte della padrona suscita nel suo cane non facesse balenare a quest’ultimo un’idea di che cosa sia l’amore, e l’immortalità della poesia non desse in extremis una speranza all’altro cane, il poeta.