Una battaglia persa che vale la pena di continuare Goffredo Fofi, L\' oppio del popolo, Elèuthera 2019 (pp. 166, euro 16)


“Per uno come me – conclude l’autopresentazione che è anche un rapida autobiografia intellettuale ad apertura del libro – e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato facile per il potere servirsi della cultura (…) cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici della manipolazione, del dominio”.
È la sintesi del discorso, con un’appendice decisiva, su quel che occorre fare ma non tutti possono: “È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti”.
Se il pensiero, a quel richiamo a minoranze convinte e rigorose, va a un altro recente pamphlet, quello di Gustavo Zagrebelski (Mai più senza maestri, Il Mulino 2019: in questi Appunti lo scorso 27 ottobre), la critica spietata che passa in rassegna i diversi settori e aspetti della cultura sembra evocare i toni perentori, non di rado sarcastici, del romanzo di Francesco Pecoraro (Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019: in questi Appunti lo scorso 1 luglio).
Il bilancio pesante dello stato delle cose è infatti anche qui decisamente negativo: “Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi”.
Il discorso che da questi presupposti si sviluppa dimostra come l’identificazione di un nuovo oppio del popolo nella cultura – intesa in tutte le forme assunte, a partire dagli anni Ottanta soprattutto: dall’informazione, oggi detta comunicazione, all’arte e alla letteratura, dal teatro al cinema, dall’editoria alle altre branche dell’industria culturale (festival compresi), dalla scuola al volontariato nelle variegate forme del terzo settore – non sia il frutto di quell’ “esasperazione personale” che pure l’autore ammette, ma di un’analisi dettagliata che non solo la vastità dei riferimenti ma anche lo stile adottato – fatto di giudizi inappellabili e riprese frequenti ma sempre pertinenti e di un tono che unisce l’invettiva alla considerazione scettica – non consentono di rendere in una nota di lettura.
Ognuno può trovare in queste pagine argomenti che lo toccano da vicino. Chi si prova a scrivere, ad esempio, si troverà a riflettere sulla necessità di “guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi – altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante – e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) e dunque sull’opportunità di “guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici”. Perché “Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guadare, colpa”.
Ma più in generale, a trovare in questo libro motivi di inquietudine e ragioni di autoesame sono – siamo – tutti coloro che in tesi come quelle espresse da Fofi in varia misura si riconoscono senza per questo avvertire, tuttavia, la necessità indilazionabile di cercare un sbocco pratico, politico, collettivo alle loro convinzioni. A tutti costoro l’autore rivolge un invito preciso, anche se non certo declinabile in soluzioni specifiche: “diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, (…) teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti”, nella sostanza. Non distinguibili da coloro che “Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia” e “Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità”.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione, fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo – una critica poetante. Una critica, cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con “un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo – alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”, innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale, “dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta, commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena l’essenza stessa della poesia”.
Brescia, 26 gennaio 2020
Carlo Simoni
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