La Storia e le storie, le vite e il romanzo Marco Balzano, Resto qui, Einaudi 2018 (pp. 192, euro 18)
La “marcia su Bolzano” nel ’22, con incendi di edifici pubblici, pestaggi, e i carabinieri che restano a guardare. La città ne esce cambiata: “ancora oggi camminare per Bolzano mi scombussola.
Tutto mi sembra ostile. I segni del ventennio sono tanti”. E dalla città alle valli, ai paesi: “Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne”, “hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti”. E l’italiano, “una lingua esotica” per chi viveva in “Alto Adige”, è l’unica lingua ammessa: la protagonista, se vuole insegnare, deve farlo nelle “catacombe”, fare la “maestra clandestina”, sotto la minaccia dell’olio di ricino o, peggio, del confino.
Qualcosa sapevamo (i cartelli bilingui, con quelle italianizzazioni spesso fantasiose, a volte grottesche…), ma non altrettanto si sa di quel che il fascismo ha seminato fra i monti del Sud Tirolo: “Sperare in Adolf Hitler era la ribellione più vera”. Essere antifascisti e filonazisti. E quando, nell’estate del ’39, “i tedeschi di Hitler vennero ad annunciare che, se lo volevamo, potevamo entrare nel Reich e lasciare l’Italia”, dividersi: fra “optanti” e “restanti”, fra chi accetta l’opzione e se ne va in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi decide di restare perché il posto in cui è nato ha un significato, le strade e le montagne gli appartengono come lui appartiene ad esse.
Ma oltre al fascismo e all’opzione offerta dai nazisti, oltre alla guerra e alla vita alla macchia, alla fuga continua e alle morti di chi ci si era trovati vicino, oltre a tutto questo c’è il progetto della diga, i lavori che si era sperato la guerra fermasse e che riprenderanno invece, costringendo di nuovo alla scelta. Erich, protagonista del romanzo, insieme alla moglie Trina, la voce narrante, non ha dubbi: lui resta. “Perché qui ci sono nato, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro.”
“Le industrie – scrive Trina: per nessuno, per se stessa – stavano trattando Curon e la valle come fossero un posto senza storia. Invece noi avevamo un’agricoltura e allevamenti e prima che arrivasse quell’esercito di cafoni e quella marmaglia di ingegneri regnava l’armonia tra i masi e il bosco, tra i prati e i sentieri. Era una terra ricca e piena di pace, la nostra. Sacrificare tutto questo per una diga era semplicemente selvaggio. Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio”.
Ma paesaggio è anche quello della Val Venosta di oggi per i turisti che si fermano e si fotografano davanti a quel campanile che spunta dalle acque del lago artificiale, che nel 1950 ha sommerso il paese, “come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.”
La storia è esistita invece, ma se si è fatta romanzo e proprio per questo è riuscita a raggiungerci è perché l’autore ha saputo intravederci le vite, irripetibili come sono le vite, di donne e uomini in carne ed ossa: “Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse capaci di ospitare una storia più intima epersonale – scrive infatti in una “nota” conclusiva – attraverso cui filtrare la storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo».
Tutto mi sembra ostile. I segni del ventennio sono tanti”. E dalla città alle valli, ai paesi: “Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne”, “hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti”. E l’italiano, “una lingua esotica” per chi viveva in “Alto Adige”, è l’unica lingua ammessa: la protagonista, se vuole insegnare, deve farlo nelle “catacombe”, fare la “maestra clandestina”, sotto la minaccia dell’olio di ricino o, peggio, del confino.
Qualcosa sapevamo (i cartelli bilingui, con quelle italianizzazioni spesso fantasiose, a volte grottesche…), ma non altrettanto si sa di quel che il fascismo ha seminato fra i monti del Sud Tirolo: “Sperare in Adolf Hitler era la ribellione più vera”. Essere antifascisti e filonazisti. E quando, nell’estate del ’39, “i tedeschi di Hitler vennero ad annunciare che, se lo volevamo, potevamo entrare nel Reich e lasciare l’Italia”, dividersi: fra “optanti” e “restanti”, fra chi accetta l’opzione e se ne va in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi decide di restare perché il posto in cui è nato ha un significato, le strade e le montagne gli appartengono come lui appartiene ad esse.
Ma oltre al fascismo e all’opzione offerta dai nazisti, oltre alla guerra e alla vita alla macchia, alla fuga continua e alle morti di chi ci si era trovati vicino, oltre a tutto questo c’è il progetto della diga, i lavori che si era sperato la guerra fermasse e che riprenderanno invece, costringendo di nuovo alla scelta. Erich, protagonista del romanzo, insieme alla moglie Trina, la voce narrante, non ha dubbi: lui resta. “Perché qui ci sono nato, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro.”
“Le industrie – scrive Trina: per nessuno, per se stessa – stavano trattando Curon e la valle come fossero un posto senza storia. Invece noi avevamo un’agricoltura e allevamenti e prima che arrivasse quell’esercito di cafoni e quella marmaglia di ingegneri regnava l’armonia tra i masi e il bosco, tra i prati e i sentieri. Era una terra ricca e piena di pace, la nostra. Sacrificare tutto questo per una diga era semplicemente selvaggio. Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio”.
Ma paesaggio è anche quello della Val Venosta di oggi per i turisti che si fermano e si fotografano davanti a quel campanile che spunta dalle acque del lago artificiale, che nel 1950 ha sommerso il paese, “come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.”
La storia è esistita invece, ma se si è fatta romanzo e proprio per questo è riuscita a raggiungerci è perché l’autore ha saputo intravederci le vite, irripetibili come sono le vite, di donne e uomini in carne ed ossa: “Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse capaci di ospitare una storia più intima epersonale – scrive infatti in una “nota” conclusiva – attraverso cui filtrare la storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo».