I retroscena della Mille Miglia Massimo Tedeschi, La maledizione del numero 55. Un’indagine del commissario Sartori da Salò, La nave di Teseo 2019 (pp. 176, euro 16)


Da narratore seriale ormai consumato – e approdato con questo romanzo a una casa editrice prestigiosa – l’autore sa da subito mettere a suo agio il lettore, sia quello che per la prima volta incontra il commissario Italico (Italo, più comunemente) Sartori e nei cenni che lo inquadrano trova i riferimenti necessari per dargli un volto e una personalità inconfondibile, sia quello che riconosce il personaggio avendolo seguito nelle indagini precedenti e prova un’impressione di familiarità nel ritrovare il caffè Impero dove lui fa sosta ogni mattina per bere il suo latte macchiato, il cane Argo che lo accoglie affettuoso, la villa che si intravede dall’altra parte del golfo, a Portese, e calamita lo sguardo del commissario evocando in lui brividi di desiderio ma anche, in questo caso, l’inquietudine che travaglia gli amanti tormentati da un disaccordo di cui non sanno prevedere gli esiti. Già, perché la bella – e agiata, quanto generosa – vedova Anna Arquati, altra vecchia conoscenza, intende partecipare alla Milla Miglia che si sta per disputare, suscitando la preoccupazione, ma soprattutto la gelosia di Sartori, che già se la immagina attorniata da una schiera di ammiratori.
Ma Salò è solo uno dei luoghi lacustri che fanno da cornice alla vicenda: sono l’intero Garda bresciano da Sirmione a Limone – questa la giurisdizione del commissario –, il suo paesaggio, le sue atmosfere diverse secondo la stagione ad accompagnarci nella lettura, a darle un sapore che sembra fare dei romanzi di Tedeschi i capitoli di un’unica storia che si snoda attorno a un lago ora radioso ora grigio e nebbioso ma sempre capace di suggestioni inimitabili.
La velocità, mito dominante dell’epoca, non si concretizza questa volta negli idrovolanti del Reparto Alta velocità – come nell’Ultimo record – ma nelle rombanti automobili della Mille Miglia del 1936, di poco seguente alle esequie del poeta del Vittoriale, figura simbolo di quel mito e presenza ricorrente nelle avventure del nostro commissario, fin da Carta rossa, il primo romanzo. Sartori non ha tuttavia tempo di seguire i frenetici preparativi della gara. Ha altro da pensare: dalla morte apparentemente accidentale di uno dei piloti francesi iscritti alla corsa e del suo meccanico all’assassinio di una maga, la famosa Nefertari, al secolo Luigina Stroppa, alle cui capacità medianiche ricorrevano i più disparati personaggi dell’ambiente gardesano.
È a Brescia che l’indagine conduce Sartori, nello studio del patron della corsa, Renzo Castagneto, e proprio dal dialogo fra i due – vero pezzo di bravura per realismo e vivacità, insieme alla descrizione di Piazza Vittoria alla vigilia della gara: sembra oggi, non fosse per la presenza del Bigio… – verrà il sospetto circa le cause effettive dell’incidente mortale. Nelle miserie dell’ambiente borghese della Riviera si dovrà invece cercare il movente dell’uccisione dell’indovina, un ambiente che offre all’autore spunti in abbondanza per darci – come nei romanzi precedenti, si pensi a Villa romana con delitto – un quadro dettagliato e impietoso di un mondo le cui doppiezze e meschinità trovavano alimento nel conformismo imposto dal regime.
E allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero essere superati?”
Non resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo precedente Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui: comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.
È questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.
Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016).
Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”
Brescia, 8 dicembre 2019
Carlo Simoni
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