Fra Dostojevskij e Čechov
Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018 (pp. 191, euro 13)
Geoges Simenon, Il fiuto del dottor Jean e altri racconti, Adelphi 2018 (pp. 163, euro 12)
Geoges Simenon, Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018 (pp. 176, euro 18)
A fine anni Trenta Simenon aveva già firmato col proprio nome le sue prime storie di Maigret, abbandonando lo pseudonimo che aveva usato per qualche tempo.
Il commissario aveva ormai iniziato la sua carriera, e dunque perché inventarsi questo dottor Jean? Solo perché lo scrittore si stava facendo una nuova casa nella Charente Maritime, sopra Bordeaux, e non sapeva starsene con le mani in mano e perciò non trovò di meglio da fare che scrivere del giovane medico in servizio, appunto, in quella regione? Probabile, vista la sua prolificità irrequieta, ma doveva esserci dell’altro. Forse il bisogno di mettere al mondo il dottore detective – non come esperimento preparatorio, ma come figura parallela – rispecchia un momento in cui Simenon non ha ancora del tutto deciso se il suo personaggio sarà quello dell’investigatore che pensa e deduce, come Jean appunto, interessato al proprio gioco intellettuale più che agli uomini protagonisti della vicenda su cui indaga, o invece un altro: un uomo che non pensa, e però “vede, soltanto vede”. Ma questo è Maigret: “Io non penso mai”, confessa a volte il commissario. Ma allora cosa fa? Cerca di ragionare come i sospetti; cerca di capirli nella loro umanità, prima che nei loro moventi. A ben vedere, questo modo di fare non si può dire sia del tutto estraneo al dottor Jean, un po’ Sherlock Holmes, o forse meglio: Hercule Poirot, ma un po’ anche Maigret: “Gli altri, il sostituto, il commissario, brancolavano nel buio, e – pensava il dottore – non poteva essere altrimenti, perché era così che funzionava in una inchiesta poliziesca. Perché sbagliavano metodo! Lui, invece… Che metodo aveva usato in realtà? Non avrebbe saputo precisarlo, ma lo sentiva. Si metteva nei panni di…”.
Il percorso di uno scrittore è fatto anche di questi momenti di indecisione, o di messa a punto del carattere del suo personaggio, soprattutto quando di un grande scrittore si tratta, come Sciascia sostiene, sulla scorta di Alberto Savinio che riteneva Simenon un “Dostojevskij mancato”. Salvo poi precisare, Sciascia, che Simenon non tanto in Dostojevskij si riconosceva, ma in Gogol e in Čecov, vale a dire, secondo lo scrittore siciliano, nello “scrittore che vede” e nello “scrittore che ama”. “E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alla verità dell’uomo così come a Maigret permettono di giungere alla soluzione del caso.” Il metodo di Maigret e la tecnica narrativa di Simenon sono quindi le due facce di una stessa medaglia: “Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čecov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini quanto Maigret.”
Eppure, nella famiglia che incontriamo in Il fondo della bottiglia – un romanzo di Simenon di quelli senza Maigret, i “romanzi duri” come diceva lui stesso – e nel gioco aspro che si è instaurato fra i fratelli e alla fine esplode, un po’ di Dostojevskij c’è. Un Dostojevskij della borghesia ha detto qualcuno, non ricordo quale dei suoi lettori eccellenti (Gide, Montale, Benjamin…).
Il ricordo di quando erano bambini si mescola dolorosamente a una rivalità mai sopita nel rapporto fra Patrick Martin e Donald, ripiombato nella vita del fratello, agiato possidente in Arizona, senza esser mai uscito da quella travagliata della sorella. E’ il groviglio lacerante quanto insolubile in cui la relazione tra fratelli può tradursi al centro della narrazione, è l’odio più funesto, l’“odio fra consanguinei”, ad emergere nei loro dialoghi tesi e irrisolti, nei quali a prevalere alla fine, per entrambi, è un senso di umiliazione.
Il commissario aveva ormai iniziato la sua carriera, e dunque perché inventarsi questo dottor Jean? Solo perché lo scrittore si stava facendo una nuova casa nella Charente Maritime, sopra Bordeaux, e non sapeva starsene con le mani in mano e perciò non trovò di meglio da fare che scrivere del giovane medico in servizio, appunto, in quella regione? Probabile, vista la sua prolificità irrequieta, ma doveva esserci dell’altro. Forse il bisogno di mettere al mondo il dottore detective – non come esperimento preparatorio, ma come figura parallela – rispecchia un momento in cui Simenon non ha ancora del tutto deciso se il suo personaggio sarà quello dell’investigatore che pensa e deduce, come Jean appunto, interessato al proprio gioco intellettuale più che agli uomini protagonisti della vicenda su cui indaga, o invece un altro: un uomo che non pensa, e però “vede, soltanto vede”. Ma questo è Maigret: “Io non penso mai”, confessa a volte il commissario. Ma allora cosa fa? Cerca di ragionare come i sospetti; cerca di capirli nella loro umanità, prima che nei loro moventi. A ben vedere, questo modo di fare non si può dire sia del tutto estraneo al dottor Jean, un po’ Sherlock Holmes, o forse meglio: Hercule Poirot, ma un po’ anche Maigret: “Gli altri, il sostituto, il commissario, brancolavano nel buio, e – pensava il dottore – non poteva essere altrimenti, perché era così che funzionava in una inchiesta poliziesca. Perché sbagliavano metodo! Lui, invece… Che metodo aveva usato in realtà? Non avrebbe saputo precisarlo, ma lo sentiva. Si metteva nei panni di…”.
Il percorso di uno scrittore è fatto anche di questi momenti di indecisione, o di messa a punto del carattere del suo personaggio, soprattutto quando di un grande scrittore si tratta, come Sciascia sostiene, sulla scorta di Alberto Savinio che riteneva Simenon un “Dostojevskij mancato”. Salvo poi precisare, Sciascia, che Simenon non tanto in Dostojevskij si riconosceva, ma in Gogol e in Čecov, vale a dire, secondo lo scrittore siciliano, nello “scrittore che vede” e nello “scrittore che ama”. “E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alla verità dell’uomo così come a Maigret permettono di giungere alla soluzione del caso.” Il metodo di Maigret e la tecnica narrativa di Simenon sono quindi le due facce di una stessa medaglia: “Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čecov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini quanto Maigret.”
Eppure, nella famiglia che incontriamo in Il fondo della bottiglia – un romanzo di Simenon di quelli senza Maigret, i “romanzi duri” come diceva lui stesso – e nel gioco aspro che si è instaurato fra i fratelli e alla fine esplode, un po’ di Dostojevskij c’è. Un Dostojevskij della borghesia ha detto qualcuno, non ricordo quale dei suoi lettori eccellenti (Gide, Montale, Benjamin…).
Il ricordo di quando erano bambini si mescola dolorosamente a una rivalità mai sopita nel rapporto fra Patrick Martin e Donald, ripiombato nella vita del fratello, agiato possidente in Arizona, senza esser mai uscito da quella travagliata della sorella. E’ il groviglio lacerante quanto insolubile in cui la relazione tra fratelli può tradursi al centro della narrazione, è l’odio più funesto, l’“odio fra consanguinei”, ad emergere nei loro dialoghi tesi e irrisolti, nei quali a prevalere alla fine, per entrambi, è un senso di umiliazione.
Si direbbe che in questo ancor più che in altri romanzi Simenon abbia dato fondo alla sua capacità di introspezione psicologica, con una partecipazione ancor più viva che in altri casi: qualcuno ha intravisto una trama autobiografica nella storia di Patrick e Donald, la storia di Georges e di Christian, suo fratello minore, collaborazionista nel ’45, poi militare nella Legione straniera da cui non sarebbe più tornato a turbare la vita di lui, Simenon, nel frattempo trasferitosi, guarda caso, in Arizona.